Capdi prova su circostanze nuove non dedotte agli atti

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CAPITOLO 4: I RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI


-Il regime patrimoniale della famiglia: principi e nozioni generali


Capo VI del Titolo Vi del Libro I del codice civile: “Del regime patrimoniale della famiglia”.
Già l'art 143 però impone ai coniugi l'obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo; si delineano dunque un regime patrimoniale primario che realizza il momento contributivo ed ha lo scopo di stabilire in che modo si debba provvedere alle esigenze della vita comune; ed un regime patrimoniale secondario (comunione legale o regimi convenzionali) che attua il momento distributivo della ricchezza ed ha scopo principale di individuare chi è proprietario dei beni acquistati durante il matrimonio.
Nella seconda accezione si fa dunque riferimento all'insieme di regole di appartenenza e circolazione dei beni dei coniugi.
La riforma del 1975 ha contribuito a stravolgere la disciplina per attuare anche in campo patrimoniale i principi di eguaglianza e solidarietà sui quali la vita familiare si fonda; la principale modifica si realizza nello stabilire la comunione dei beni come regime patrimoniale legale cioè che opera automaticamente per effetto del matrimonio, senza diversa convenzione dei coniugi.
Secondo la nuova disciplina, i beni acquistati dai coniugi durante il matrimonio appartengono ai coniugi in comunione, indipendentemente dalla provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto.
Nel codice civile del 42 il regime legale era quello della separazione dei beni: a ciascun coniuge spettava la proprietà esclusiva dei beni acquistati senza poter vantare diritti sui beni dell'altro.
Le ragioni che informano la riforma del 1975 sono molteplici: esigenze di valorizzazione del lavoro casalingo della donna e di una migliore attuazione dell'eguaglianza tra coniugi, ma queste esigenze sono espresse solo in modo parziale poiché manca uno strumento per la valutazione effettiva della prestazione lavorativa della moglie o per stabilire un rapporto di
proporzionalità tra lavoro prestato e partecipazione al patrimonio comune.
La derogabilità del regime patrimoniale con convezione suggerisce che non costituisce strumento necessario per l'attuazione della parità tra coniugi.
Secondo altri la comunione sarebbe espressione di valori comunitari e solidaristici riflessi
nell'intera disciplina riformata: il nuovo regie legale vorrebbe valorizzare il contributo diretto ed indiretto, materiale e spirituale, apportato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio familiare, costituendo la base economica per attuare le decisioni concordate e l'indirizzo della vita familiare.
Ad operare l'eguaglianza non è la scelta tra un regime o l'altro, mala previsione di regole precise specialmente relative ai poteri di amministrazione e disposizione.
Proprio per questo la nostra disciplina si presenta rispettosa dell'eguaglianza: stabilisce con disposizioni inderogabili che i beni comuni appartengono in parti eguali ai coniugi quali spettano eguali poteri di amministrazione.
Nella normalità quotidiana entrambi i coniugi hanno responsabilità lavorative professionali e impegni di cura dei figli; quasi il 50% delle coppie opta per il regime separatista a favore di una maggiore autonomia, semplificazione delle regole di circolazione e maggiore trasparenza verso i terzi.
La comunione o la separazione possono risultare preferibili e più coerenti con il parametro dell'eguaglianza a seconda del modello di famiglia che riguardano.




-Rapporti patrimoniali tra coniugi e convenzioni matrimoniali


La comunione legale è regime patrimoniale legale della famiglia ed opera solo sé i coniugi non hanno espresso volontà diversa; tale deroga si realizza con la stipula di una convenzione matrimoniale.
L'autonomia privata in questo caso incontra i soli limiti citati dal codice civile:
a)art 160: gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio; tale norma riguarda i diritti di natura patrimoniale ed il principio di parità nell'adempimento dell'obbligo di contribuzione;
b)art 161: nella redazione delle convenzioni non è possibile far riferimento generale a leggi straniere o usi, ma deve essere puntualmente individuata la disciplina cui si vogliono assoggettare i propri rapporti patrimoniali;
c)art 166 bis: è nulla ogni convenzione che tenda alla costituzione di beni in dote; la dote era costituita da beni della moglie o di altri per lei, donati al marito per sostenere
gli oneri familiari. Abrogata dalla riforma perché in contrasto con il principio di eguaglianza dei coniugi; era intesa come contrappeso all'obbligo di mantenimento della moglie gravante sul marito che aveva poteri di piena gestione dei beni dotali privando la moglie di ogni controllo sugli stessi. L'articolo vuole evitare che si crei un regime dagli effetti simili a quelli della dote;
d)art 210: nel preferire un regime di comunione convenzionale non si può derogare alle regole relative alla comunione legale che riguardano la parità delle quote nell'amministrazione comune.
Nel rispetto di tali limiti l'autonomia dei coniugi si manifesta nella scelta tra l'assoggettarsi alla comunione legale o adottare diverso regime convenzionale.
Anche sé dedica una complessa disciplina alle convenzioni, il codice non le definisce; il cdice disciplina diversi tipi di convenzione:
1.Comunione convenzionale
2.Separazione dei beni
3.Fondo patrimoniale.


La disciplina delle convenzioni matrimoniali richiede, a pena nullità, che siano redatte per atto pubblico alla presenza di due testimoni; nel rispetto di ciò, le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate in ogni tempo, sia prima che dopo il matrimonio.
La scelta del regime di separazione può essere effettuata anche al momento della celebrazione del matrimonio civile o religioso; per l'opponibilità a terzi è richiesta l'annotazione al margine dell'atto di matrimonio; e quando l'atto ha ad oggetto beni immobili è necessaria trascrizione nei registri immobiliari.
Le convenzioni matrimoniali possono subire modifiche con atto pubblico, anche successivamente al matrimoni, purché vi sia il consenso dei coniugi e dei terzi eventualmente parte della convenzione.




-La pubblicità


La comunione, regime legale che opera per il solo fatto del matrimonio, non è soggetta a particolari forme di pubblicità; sono oggetto di pubblicità tramite annotazione nei registri di stato civile, a margine dell'atto di matrimonio, le eventuali convenzioni in deroga al regime legale.
Per la comunione legale si parla dunque di “pubblicità negativa”.
Gli acquisiti e l'azienda coniugale rientrano automaticamente nella comunione senza che sia necessario assolvere alcun onere pubblicitario ed anche sé la trascrizione dell'atto d'acquisto è fatta in favore del solo coniuge acquirente.
Le convenzioni in deroga alla comunione legale devono essere annotate a margine dell'atto di matrimonio; quando hanno ad oggetto beni immobili devono essere trascritte nei registri immobiliari: vale per il fondo patrimoniale, per le convenzioni che escludono beni immobili dalla comunione, per gli atti e i provvedimenti di scioglimento della comunione e per gli atti di acquisto di beni personali.
Le stesse trascrizioni devono essere fatte per i beni immobili che entrano a fare parte solo successivamente del patrimonio familiare o che restino esclusi dalla comunione; non vanno trascritte le convenzioni con cui i coniugi optano per il regime di separazione dei beni. Poiché la separazione è regime che opera in generale e non in relazione a singoli beni, l'unica forma di pubblicità prevista è quella dell'annotazione a margine dell'atto di matrimonio.
Si hanno dunque due forme diverse di pubblicità: l'una che si concretizza con l'annotazione nei registri di stato civile, che attiene alle convenzioni matrimoniali in sé considerate; l'altra da farsi nei registri immobiliari, ce riguarda l'incidenza che tali regimi hanno sulla condizione giuridica dei singoli beni.
L'effetto di pubblicità dichiarativa è attribuito solo alla prima forma: l'annotazione diventa adempimento sufficiente e necessario per rendere opponibile a terzi la convenzione che modifica la condizione giuridica di un singolo bene; la sola trascrizione invece non rende opponibile ai creditori il vincolo nascente dal fondo.
Alla pubblicità relativa alla convenzione si aggiunge quella che riguarda la disciplina traslativa del bene.
Il regime legale in quanto tale non è soggetto a pubblicità, lo sono invece le eccezioni ad esso; la sola pubblicità immobiliare non dà conto del regime di appartenenza dei beni di persone coniugate, dovendo essere integrata con quella risultante dai registri di stato civile. Si ha dunque un sistema complesso e poco sensibile alle esigenze della prassi.


-La comunione legale: natura ed oggetto


Non comprende la totalità dei beni di cui i coniugi sono titolari ma ha ad oggetto gli acquisti compiuti durante il matrimonio e le aziende coniugali; restano esclusi i beni personali e ne sono esclusi i beni che costituiscono la comunione differita o “de residuo” che sono destinati ad essere divisi tra i coniugi solo sé esistenti al momento dello scioglimento della comunione.
Si distinguono tre categorie di beni:
a)beni che cadono in comunione direttamente all'atto di acquisto;
b)beni che costituiscono oggetto della comunione differita o “de residuo”,
c)beni che non cadono mai in comunione perché parte del patrimonio personale di ciascun coniuge.


La comunione legale è quindi parziale, è inoltre derogabile e non necessaria ed è definita vincolata perché la sua disciplina non consente la piena esplicazione dell'autonomia dei coniugi.
Non da poi origine ad autonomo soggetto di diritto né a centro di imputazione autonomo di diritti e doveri; si tratta di una forma di comproprietà distinta dalla comunione ordinaria: la comunione legale ha ad oggetto l'intero patrimonio e non singoli beni; nella comunione legale manca una ripartizione in quote ed è vietato al coniuge di disporre liberamente della propria quota sull'intero patrimonio.
La quota rileva per la divisione dei beni comuni e per individuare la misura dei diritti dei creditori personali e comuni, ma non costituisce elemento strutturale della comunione legale.
La divisione deve poi essere fatta in parti uguali poiché non è ammissibile che ai coniugi spettino quote diseguali.
Si tratterebbe secondo la Corte costituzionale di un “comproprietà solidale”: i coniugi sono proprietari in solido dei beni comuni.




-Gli acquisti


Oggetto della comunione legale sono in primo luogo gli acquisti compiuti congiuntamente o separatamente dai coniugi, ad esclusione di quelli relativi a beni personali; acquisto in questo caso è dunque ogni tipo di investimento durevole che determini un incremento del patrimonio dei coniugi.
L'acquisto si verifica direttamente in capo alla comunione; nel caso in cui sia stato compiuto separatamente da singolo coniuge, non si ha ritrasferimento a favore dell'altro; si tratta di un trasferimento “ex lege” in virtù del quale l'acquisto compiuto separatamente da un coniuge si estende anche all'altro.
-Gli acquisti a titolo derivativo


Titolo dell'acquisto può essere il contratto, concluso congiuntamente o separatamente dai coniugi; l'atto d'acquisto, presupposto per la caduta del bene in comunione e non atto di amministrazione della stessa, non è soggetto alla regola dell'agire congiunto ex art 180 cc (L'amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad
essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi.
Il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi).
L'acquisto si compie a favore della comunione indipendentemente dalla provenienza del corrispettivo.



-Gli acquisti a titolo originario


L'acquisto a titolo originario può essere risultato dell'esercizio di attività separata del coniuge e cadere quindi in comunione “de residuo” o sé il carattere comune può essere escluso.
Caso a parte riguarda l'usucapione: sé vi è possesso comune la proprietà spetta ad entrambi; anche nel caso di possesso di un solo coniuge si ritiene che il bene cada in comunione sé il termine finale del periodo di tempo necessario all'acquisto cade nell'ambito della comunione legale.




-I diritti di credito


La Corte di cassazione ha stabilito che non entrano in comunione i crediti derivanti dal preliminare; solo con il definitivo si verifica l'effetto traslativo della proprietà e l'acquisto a favore della comunione. Consegue che il coniuge non parte del preliminare è privo di legittimazione in relazione ai giudizi relativi a contratti preliminari.
Secondo molti l'acquisto a favore della comunione dovrebbe operare dal momento dell'assegnazione che è momento più significativo nella sequenza di atti che porta al
trasferimento della proprietà; la Corte di cassazione però dà rilevanza al momento formale dell'acquisto della proprietà data la natura precaria dell'assegnazione.
Per quanto riguarda la caduta in comunione delle partecipazioni sociali si tende a distinguere a seconda che la partecipazione determini esercizio di attività d'impresa da parte del coniuge o abbia funzione di mero investimento; la partecipazione ad una società di persone implica esercizio di attività d'impresa e sono parte della comunione solo sé sussistono al momento dello scioglimento della stessa; la partecipazione in società di capitale invece costituisce investimento e rientra in comunione salvo prova contraria.



-L'azienda


Costituiscono oggetto della comunione anche le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio; quando si tratta di aziende appartenenti ad un coniuge antecedenti al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione riguarda solo utili ed incrementi.
L'acquisto a favore della comunione è immediato in entrambi i casi; ai fini di questa si intende per “gestione” l'esercizio di attività d'impresa.
Quando si tratta di impresa gestita d un solo coniuge, i beni o gli utili ad essa destinati saranno solo oggetto della comunione “de residuo” cioè cadranno in comunione solo sé sussistenti al momento dello scioglimento.
NB: per escludere il carattere comune del bene sarà sufficiente che questo sia destinato all'esercizio dell'impresa personale del coniuge, senza necessità di una dichiarazione o formalità particolari.
Si vuole dare attuazione alla garanzia della libertà di iniziativa economica dando a ciascuno la possibilità di essere autonomo nello svolgimento dell'attività economica: libertà ed autonomia non potrebbero esplicarsi sé i beni destinati all'impresa individuale, cadendo in comunione, fossero assoggettati alle regole di amministrazione proprie di questa e fossero destinati in via prioritaria al soddisfacimento dei creditori della comunione.
Sé l'azienda è gestita da entrambi ma è di proprietà di terzo, cadono in comunione solo utili ed incrementi.




-La comunione “de residuo”
Vi sono beni che costituiscono parte della comunione solo sé ancora esistenti al momento del suo scioglimento: si parla di comunione “de residuo”; si tratta di:
1)frutti di bei propri;
2)proventi dell'attività separata di ciascun coniuge;
3)beni destinati all'esercizio di impresa di uno dei due coniugi, costituita dopo il matrimonio e degli incrementi d'impresa pur costituita precedentemente.


La norma riconosce in questo modo piena libertà ai coniugi nella gestione dei redditi propri. Finché non si verifica lo scioglimento della comunione i redditi, frutti, utili e incrementi dell'azienda appartengono al patrimonio personale del coniuge precettore; non sono però definitivamente personali perché destinati a cadere in comunione al momento dello scioglimento.
Il coniuge può utilizzare i proventi da attività separata per contribuire ai bisogni della famiglia, per acquistare beni oggetto di comunione legale o per fare acquisti di natura personale; potrà poi risparmiarli e sé sussisteranno al momento dello scioglimento, cadranno in comunione “de residuo” e saranno divisi in parti uguali tra i coniugi.
Comunione “de residuo” perché riguarda ciò che residua dallo scioglimento della comunione.
Fanno parte della comunione “de residuo” solo i beni esistenti al momento dello scioglimento e non quelli che ipoteticamente avrebbero potuto rinvenirsi intendendo ad essa destinati i proventi che non si possano dimostrare impiegati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o in acquisti comuni.
Per quanto riguarda i rapporti con i terzi, la caduta in comunione”de residuo” non comporta l'automatica attribuzione all'altro coniuge della contitolarità del diritto di credito nei confronti del terzo debitore; il coniuge acquista invece diritto di credito nei confronti dell'altro pari a metà di quanto vantato verso il terzo.
Risulta salvaguardatala posizione del terzo cui non si può far carico di indagini non sempre agevoli per appurare il regime patrimoniale del proprio creditore e le sue eventuali modifiche.



-I beni personali


Non sono oggetto di comunione i beni personali indicati all'articolo 179 cc:
a)i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di diritto reale di godimento;
b)beni acquisiti successivamente al matrimonio per donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o testamento non sia specificato che sono attribuiti alla comunione;
c)i beni di uso strettamente personale di un coniuge ed i oro accessori;
d)i beni destinati all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un'azienda rientrante in comunione;
e)beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno e la pensione relativa alla perdita totale o parziale della capacità lavorativa;
f)ben acquisiti con il prezzo dal trasferimento dei beni personali elencati o con scambio, purché questo sia espressamente dichiarato nell'atto d'acquisto.


Quando l'acquisto ha ad oggetto beni immobili o mobili registrati, sono esclusi dalla comunione a condizione che l'esclusione risulti dall'atto di acquisto e che di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.
I beni personali sono esclusi definitivamente dalla comunione.



-L'amministrazione e gli atti di disposizione dei beni comuni
-L'amministrazione


Con disposizione inderogabile (art 210 cc) è stabilito che i poteri di amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio spettano ad entrambi i coniugi in posizione di eguaglianza: disgiuntamente per gli atti di ordinaria amministrazione e congiuntamente per quelli di straordinaria amministrazione e per la stipula di contratti con il quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento.
Sono atti di ordinaria amministrazione quelli che tendono al normale godimento del patrimonio o alla sua conservazione; sono atti di straordinaria amministrazione quelli idonei, in astratto, ad influire sulla sua consistenza e composizione.
L'agire congiunto è richiesto anche per gli atti con cui si concedono o si acquistano (solo per la locazione della residenza familiare secondo la dottrina) diritti personali di godimento (locazione, comodato..), si intende per atto di amministrazione solo quello con cui si concedono diritti di godimento su beni della comunione.
Quando uno dei coniugi rifiuta il consenso per il compimento di un atto di straordinaria amministrazione, l'altro può chiedere l'autorizzazione al giudice sé la stipula è necessaria nell'interesse della famiglia o dell'azienda familiare in comunione.
In caso di lontananza o impedimento di uno dei coniugi, l'altro può compiere, in mancanza
di procura, e previa autorizzazione del giudice, tutti gli atti di amministrazione per cui occorre il consenso.
Si ritiene di ammettere il rilascio di procure speciali o generali da un coniuge all'altro con l'unica e eccezione di quelle irrevocabili che finirebbero per eludere la ratio della norma che sancisce il carattere comune dell'amministrazione. L'esclusione dall'amministrazione può essere disposta con provvedimento del giudice quando il coniuge sia minore o non possa amministrare o abbia male amministrato; opera di diritto in caso di interdizione. Non è chiaro sé il coniuge on escluso possa amministrare solo o debba chiedere il consenso al rappresentante dell'altro o l'autorizzazione giudiziale.




-Gli atti compiuti senza il necessario consenso


L'articolo 184 “atti compiuti senza il necessario consenso” riguarda solo gli atti di disposizione che hanno ad oggetto beni immobili, beni mobili registrati, o beni mobili diversi dai precedenti; gli atti fonte di obbligazione, quando compiuti senza consenso, sono regolati all'articolo 189.
Quando l'atto compiuto senza il necessario consenso dell'altro ha ad oggetto bene immobile o mobile registrato la sanzione prevista, in caso di mancata convalida dell'altro coniuge, è l'annullabilità. La relativa azione è proponibile dal coniuge il cui consenso era richiesto entro 1 anno dalla trascrizione. Sé l'atto non è trascritto e quando il coniuge non ne sia entrato a conoscenza prima dello scioglimento della comunione, l'azione può essere proposta entro 1 anno dallo scioglimento.
Quando si tratta di beni mobili non registrati, il coniuge che ha compiuto l'atto senza consenso dell'altro è obbligato, su istanza di questo, a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o, qualora non sia possibile, al pagamento dell'equivalente.
La previsione della sanzione dell'annullabilità nel primo caso deroga al regime generale relativo agli atti compiuti dal soggetto non pienamente titolare del diritto, che prevede l'inefficacia dell'atto.
Si conclude che tutti gl atti di disposizione di beni immobili o mobili registrati appartenenti alla comunione compiuti da un coniuge senza il consenso dell'altro sono validi ed efficaci e sottoposti solo alla sanzione dell'annullamento nei limiti dell'articolo 184, senza che sia possibile distinguere i casi in cui il bene sia intestato ad uno solo o ad entrambi coniugi.
-La responsabilità patrimoniale


Nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dei coniugi per le obbligazioni assunte, il legislatore distingue due categorie di creditori:
1.Creditori della comunione che possono soddisfarsi su tutto il patrimonio comune e solo sussidiariamente sul patrimonio di ciascun coniuge nella misura della metà del credito;
2.Creditori particolari dei coniugi che possono soddisfarsi sui beni personali del debitore e solo sussidiariamente sui beni comuni di spettanza del coniuge obbligato.
I beni della comunione rispondono :
a)di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell'acquisto;
b)di tutti i carichi dell'amministrazione;
c)delle spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione ed educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia;
d)di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.


Quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essi gravanti,i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascun coniuge, nella misura della metà del credito (art 190); questa disposizione deve essere combinata con quelle in materia di responsabilità patrimoniale e di obbligazioni solidali: consegue che, sé il debito è contatto da entrambi i coniugi,la responsabilità per a metà del credito vale solo nei rapporti interni e non nei confronti dl creditore verso il quale entrambi sono tenuti in solido con l'intero patrimonio. Sé il debito è contratto da un solo coniuge, il creditore può rivalersi per l'intero credito sul patrimonio del coniuge contraente e la limitazione della metà del credito vale nei confronti dell'altro coniuge.
Per quanto riguarda le obbligazioni personali, il coniuge risponde con il patrimonio personale e, quando non sufficiente, in via sussidiaria con i beni comuni fino al valore corrispondente alla propria quota.
I beni della comunione rispondono di tutti i carichi dell'amministrazione: il pagamento di queste spese può essere richiesto indifferentemente all'uno o all'altro coniuge poiché ciascuno ha poteri disgiunti di amministrazione e rappresentanza in giudizio per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione.
Per quanto riguarda la misura in cui rispondono dei debiti i beni oggetto di comunione “de residuo”: redditi e proventi dell'attività separata sono oggetto di patrimonio personale fino
allo scioglimento della comunione; il creditore personale dunque può aggredire sia i beni personali del coniuge debitore ma anche i frutti dei beni personali, i proventi dell'attività separata ed i beni destinati all'esercizio di impresa individuale.
Chi è creditore di un imprenditore, anche sé coniugato in comunione legale, può soddisfarsi sull'intero patrimonio imprenditoriale, sugli utili e sui proventi dell'esercizio.
Per l'esecuzione sui beni della comunione relativa alle obbligazioni contratte separatamente dai coniugi, l'articolo 189 dispone che i creditori possono soddisfarsi fino al valore corrispondente alla uota del coniuge obbligato, senza precisare le modalità di svolgimento dell'azione esecutiva.
Da qui il dubbio sé l'azione debba colpire ciascun bene, ma nella misura della metà del valore o sé, come preferibile, i creditori particolari possano rivalersi sull'intero patrimonio, escutendo per intero singoli beni fino al limite del valore della quota.
Si versa in situazione di fallimento si prospetta il problema di coordinare i principi della riforma con il principio secondo cui i beni acquistati a titolo oneroso dal coniuge del fallito nei 5 anni precedenti la dichiarazione di fallimento si presumono di fronte ai creditori acquistati con il denaro del fallito; da subito la giurisprudenza aveva escluso l'applicazione del principio ai coniugi in comunione legale.
La Corte di cassazione ha considerato la disposizione abrogata.





-Lo scioglimento della comunione


L'articolo 191 elenca le cause di scioglimento della comunione legale:
1)assenza;
2)morte presunta;
3)annullamento del matrimonio;
4)divorzio;
5)separazione personale;
6)separazione giudiziale dei beni;
7)mutamento convenzionale del regime patrimoniale;
8)fallimento di uno dei coniugi.
A queste cause devono essere aggiunte la morte, l'autonomia dei coniugi (convenzione di separazione dei beni), pronuncia del giudice.
Mentre nella comunione ordinaria lo scioglimento coincide con la divisione, nella comunione legale determina prima di tutto la cessazione, per il futuro, degli effetti della
comunione; in seguito allo scioglimento i beni acquistati dai coniugi non cadono in comunione ma fanno parte del patrimonio personale di chi compie l'acquisto.
La divisione è facoltà che i coniugi possono eventualmente esercitare in seguito.
Occorre distinguere il momento in cui il regime legale viene meno da quello in cui si verifica l'effettiva divisione dei beni; le cause dello scioglimento non producono né l'automatica divisione del patrimonio né l'obbligo a provvedervi.
Scioglimento della comunione legale non è altro che la cessazione degli effetti della comunione legale: successivamente al verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione, gli acuisti compiuti dai coniugi non sono più oggetto di comunione legale.
Lo scioglimento dà luogo a due ordini di effetti:
-Effetti che si verificano dopo la cessazione del regime legale:
a)i coniugi non sono più in comunione legale, a ciascuno spetta la proprietà esclusiva dei beni acquistati in un momento successivo;
b)ciascuno può chiedere la divisione del patrimonio comune;
c)diventa operante la comunione “de residuo” sui beni ex art 177 lettere b) e c) e 178.


-Effetti relativi ai rapporti anteriori: ci si chiede sé in seguito allo scioglimento, ai beni acquistati durante il matrimonio debba essere applicata la disciplina della comunione ordinaria o sé continuino ad essere assoggettati a quella della comunione legale. Da un lato in seguito al verificarsi di una delle cause di scioglimento viene meno la solidarietà tra coniugi e quindi sarebbe incompatibile il suo protrarsi in ambito patrimoniale; dopo lo scioglimento ai beni già in comunione legale si dovrebbero applicare le regole della comunione ordinaria relative all'amministrazione, alla disponibilità della quota, che garantiscono agli ex coniugi maggiore autonomia nel perseguire i propri personali interessi. Alcune regole della comunione legale vanno applicate: quelle che impongono una divisione in parti uguali. Lo scioglimento non determina per i creditori della comunione la perdita della preferenza sui creditori personali o della responsabilità sussidiaria sui beni personali.
Si deve distinguere tra i vari momenti in cui avviene lo scioglimento della comunione legale:
DIVORZIO: scioglimento solo in presenza di ipotesi di “divorzio immediato”, essendosi già altrimenti prodotto al momento della separazione.
ANNULLAMENTO DEL MATRIMONIO: l'annotazione nei registri di stato civile è condizione di opponibilità a terzi dello scioglimento. Lo scioglimento opera ex nunc dal momento della sentenza a prescindere dalla buona o mala fede dei coniugi.
SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI: destava il maggior numero di problemi e costituisce la causa maggiore di scioglimento; secondo la Corte costituzionale lo
scioglimento si verifica solo per effetto del giudicato poiché i provvedimenti presidenziali hanno carattere provvisorio e non definitivo e non offrono la certezza necessaria per il prodursi di un effetto rilevante nei rapporti tra coniugi e terzi.
La legge 55/2015 però modifica l'articolo 191 cc prevedendo che in caso di separazione personale tra coniugi, lo scioglimento si verifica all'udienza presidenziale; l'ordinanza presidenziale deve essere comunicata all'ufficiale di stato civile ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione.
L'annotazione del provvedimento di separazione è condizione per l'opponibilità ai terzi.
Gli effetti della separazione vengono meno in seguito alla riconciliazione e quindi si opta per il ripristino ex nunc del regime legale; nel periodo di separazione gli acquisti sono acquisti personali ma in seguito alla riconciliazione tornano ad essere comuni.
SEPARAZIONE GIUDIZALE DEI BENI: può essere chiesta quando il coniuge venga interdetto o inabilitato o abbia male amministrato o quando siano messi in pericolo gli interessi dell'altro o della comunione o della famiglia o quando un coniuge non contribuisca nella misura dovuta ai bisogni di questa.


Allo scioglimento della comunione segue la fase eventuale della divisione che si effettua dividendo in parti eguali l'attivo ed il passivo; la divisione dei beni presuppone che si sia già verificata una causa di scioglimento.
Il passaggio in giudicato della sentenza di separazione non è presupposto per la richiesta di divisione poiché è sufficiente che sussista al momento della pronuncia e non in quello della domanda.
Per domandare la divisione non si deve più attendere il passaggio in giudicato della separazione.
Nella fase di divisione si deve far riferimento ai rimborsi e restituzioni ex art 192 (somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall'adempimento delle obbligazioni previste dall'articolo 186, somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune); occorre altresì procedere al prelevamento dalla massa comune dei beni personali di ciascun coniuge. Il carattere personale può essere provato con qualsiasi mezzo ed in mancanza di prove il bene si presume comune; nei confronti dei creditori la proprietà esclusiva può essere provata solo con documento avente data certa.
La presunzione di comunione si applica anche al denaro rinvenuto al momento dello scioglimento; effettuati i rimborsi, le restituzione ed i prelevamenti è possibile definire la massa attiva e quella passiva della comunione, e procedere alla ripartizione in parti eguali tra coniugi realizzando la divisione del patrimonio comune.
In corso di divisione il giudice in relazione alle necessità della prole e all'affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l'usufrutto su parte dei beni spettanti all'altro; è disposizione che vuole meglio garantire l'adempimento delle obbligazioni nei confronti dei figli.



-La comunione convenzionale


I coniugi possono convenzionalmente modificare il regime di comunione legale, nei limiti imposti da disposizioni inderogabili, per meglio soddisfare le esigenze familiari.
Oltre ai limiti di forma e contenuto, per ogni convenzione matrimoniale non sono derogabili le disposizioni relative all'amministrazione dei beni della comunione e all'eguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale. Non possono essere compresi nella comunione beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori; i beni che servono all'esercizio della professione tranne quelli destinati alla conduzione dell'azienda familiare; i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno e la pensione relativa alla perdita della capacità lavorativa.
Nei limiti dell'articolo 210 i coniugi possono stabilire una comunione di beni con oggetto più limitato o pi ampio; la comunione convenzionale può comprendere ogni altro bene inclusi i beni acquistati prima del matrimonio, i beni pervenuti a titolo di successione o donazione, i proventi dell'attività separata e i frutti dei beni personali.
La pubblicità per la comunione convenzionale segue le regole dettate per le convenzioni matrimoniali: annotazione a margine dell'atto di matrimonio, trascrizione nei registri immobiliari degli atti di esclusione dei beni dalla comunione legale, trascrizione degli atti di trasferimento dei beni da un coniuge all'altro.



-La separazione dei beni


Nel regime di separazione dei beni ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo; al pari della comunione legale, la separazione dei beni è regime a carattere generale che offre una disciplina competa dei beni appartenenti ai coniugi. Diversamente dagli atri regimi patrimoniali, nella separazione dei beni la qualità del coniuge non ha influenza sulle regole di appartenenza e di circolazione dei beni che restano quelle dl diritto comune.
I coniugi possono scegliere questo regime stipulando apposita convenzione prima o dopo il
matrimonio; possono effettuare la scelta anche nell'arco del matrimonio. L'inserimento nell'atto di matrimonio garantisce la forma pubblica e la pubblicità nei registri di stato civile.; la scelta della separazione è soggetta alle regole di pubblicità previste per le convenzioni matrimoniali: annotazione in margine all'atto di matrimonio, non è richiesta la trascrizione nei registri immobiliari.
Secondo l'articolo 219 il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro, la proprietà esclusiva di un bene; mancando la prova il bene si intende appartenente ad entrambi; la disposizione si riferisce solo ai beni mobili, essendo necessaria la prova documentale degli atti da compiersi in forma scritta, per quelli immobili.
Problematica è la prova della proprietà del denaro confluito in un deposito bancario o conto corrente cointestato ad entrambi i coniugi ma con firma disgiunta: la Corte di cassazione ha chiarito che l'articolo in forza del quale gli intestatari sono da considerarsi debitori e creditori in solido del saldo del conto, vale nei rapporti esterni, tra correntisti e banca.
Nei rapporti interni invece opera la disposizione secondo la quale l'obbligazione solidale deve dividersi in parti uguali solo sé non risulta diversamente; sé è provato che il saldo attivo risulta da versamenti effettuati da un solo coniuge,l'altro non può avanzare una pretesa nei confronti dello stesso.




-IL fondo patrimoniale


Tra i regimi convenzionali il fondo patrimoniale è caratterizzato dal fatto di non essere un regime che sostituisce, ma completa gli altri costituendo il regolamento pattizio di alcuni beni determinati.
Il fondo è un complesso di beni (immobili, mobili registrati o titoli di credito) destinanti a far fronte ai bisogni della famiglia; può essere costituito per atto pubblico dai coniugi o da un terzo per atto tra vivi o per testamento. La proprietà dei beni spetta ad entrambi i coniugi ma può essere diversamente stabilito; per l'amministrazione sussistono le regole della comunione legale.
La costituzione in fondo imprime ai beni che ne sono parte un vincolo di destinazione che configura il fondo come patrimonio separato; il fondo patrimoniale è uno dei regimi patrimoniali convenzionali; secondo l'articolo 167 ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o anche un terzo per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili, mobili registrati o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia. I titoli di credito devono essere vincolati rendendoli nominativi;
quando la costituzione è fatta da terzo si perfeziona con l'accettazione dei coniugi anche con atto pubblico posteriore.
Nel caso di costituzione da parte di un terzo, è richiesta l'accettazione e dunque l'atto costitutivo ha carattere bilaterale così come nel caso in cui i coniugi lo costituiscano su beni comuni; per quanto riguarda la costituzione da parte di uno dei due coniugi che destina al fondo beni personali ci si chiede sé sia sufficiente la dichiarazione di volontà del costituente o sé sia necessaria anche quella dell'altro coniuge.
Per quanto riguarda la forma dell'atto, segue le regole descritte per le convenzioni matrimoniali: atto pubblico alla presenza di due testimoni; l'atto costituente deve essere trascritto sé ha ad oggetto beni immobili o mobili registrati e quando la costituzione opera trasferimento della proprietà o altri diritti reali immobiliari va trascritto a norma dell'articolo 2643.
Per essere opponibile ai terzi deve essere annotata nei registri di stato civile margine dell'atto di matrimonio come le convenzioni matrimoniali.
La costituzione di un fondo patrimoniale può avere come effetto il trasferimento della proprietà dei beni che ne sono oggetto ma può anche limitarsi ad imprimere su di essi un vincolo di destinazione: può succedere questo nel caso in cui i coniugi costituiscano un fondo su beni già in comunione legale o quando il disponente riservi la proprietà dei ben che ne sono oggetto. Il vincolo comporta la destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia ed ha come conseguenza l'applicazione di regole specifiche di amministrazione e disposizione dei beni.
L'amministrazione del fondo è regolata con rinvio alle norme della comunione legale; per gli atti di disposizione, i coniugi per perseguire le finalità del fondo possono di comune accordo alienare, ipotecare, dare in pegno o vincolare i beni del fondo; in presenza di figli minori tali atti di disposizione sono soggetti ad autorizzazione giudiziale che viene concessa in casi di necessità o utilità evidente.
Il vincolo di destinazione si manifesta anche nei confronti dei creditori poiché l'esecuzione sui beni el fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scop estranei ai bisogni della famiglia; il fondo costituisce patrimonio separato e su di esso possono soddisfarsi solo i creditori della famiglia e non quelli personali del coniuge. Questi potranno però soddisfarsi non solo sui frutti ma anche sui beni stessi sottraendoli alla loro destinazione; è necessario individuare quali siano i crediti che hanno inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia.
L vincolo di destinazione impedisce ai creditori di soddisfarsi sui beni del fondo; di qui l'interesse a chiedere la revocatoria dell'atto costitutivo del fondo, che la giurisprudenza ha spesso concesso.
Le cause di cessazione del fondo vengono indicate all'articolo 171: la destinazione dei beni del fondo viene meno in seguito all'annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio; sé vi sono figli minori l vincolo permane fino al compimento della maggiore età dell'ultimo figlio. In questo caso il giudice può dettare, su istanza di chi abbia interesse, norme sull'amministrazione del fondo; può anche attribuire ai figli in godimento o proprietà una quota dei beni del fondo.




-L'impresa familiare


L'articolo 230 bis introdotto dalla riforma del 1975 vuole assicurare tutela al lavoro svolto dal familiare nell'impresa tutte le volte in cui la sua prestazione non è formalizzata in un rapporto di lavoro subordinato o di società idoneo a tutelare la posizione familiare e per porre un argine alle numerose situazioni di sfruttamento che possono verificarsi all'interno della comunità familiare giustificato in passato da una diversa concezione di famiglia.
La nuova disciplina garantisce la tutela minima del familiare lavoratore che si esplica in:
a)diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;
b)partecipazione agli utili ed acquisti effettuati con essi, agli incrementi dell'azienda in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato;
c)partecipazione alle decisioni più importanti.
Questa è disciplina residuale che trova applicazione solo sé non si può configurare diverso rapporto; sé il familiare è già tutelato perché esiste rapporto di lavoro subordinato, o di società, le garanzie previste sono superflue.
Scopo della norma è quello di tutelare il lavoro svolto dai familiari nell'impresa gestita dal congiunto; si vuole distinguere un aspetto interno da uno esterno dell'impresa familiare: il primo riguarda i rapporti tra imprenditore e familiari, in forza del quale al lavoratore spettano diritti la cui natura è quella di diritti di credito; l'altro relativo ai rapporti tra imprenditore che assume su di sé i diritti, obbligazioni e responsabilità nascenti dai rapporti con terzi ed è eventualmente soggetto al fallimento.
La costituzione di impresa familiare non comporta conseguenze sulla titolarità dell'azienda che spetta all'imprenditore al quale compete in via esclusiva la gestione ordinaria dell'impresa e l'esercizio dei poteri inerenti alla sua direzione.
Presupposto per la caduta in comunione dell'intera azienda è la gestione comune dell'impresa da parte dei coniugi, cioè l'esercizio in comune dell'attività d'impresa; l'art 230 contempla l'ipotesi in cui un solo coniuge gestisce l'impresa, mentre l'altro presta in modo
continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare, senza partecipare alla gestione comune; in questo caso la partecipazione va qualificata come collaborazione.
Quando l'impresa è gestita in forma individuale da uno dei coniugi, all'altro spettano, a titolo di comunione de residuo, gli incrementi ed in caso di impresa costituita dopo il matrimonio, anche i beni aziendali oltre ai proventi realizzati e non ancora utilizzati. Sé il coniuge collabora in impresa gestita esclusivamente dall'altro, a il diritto di percepire il provento per il lavoro effettivamente svolto; il criterio distintivo tra azienda coniugale e impresa familiare passa attraverso la linea che distingue tra attività di gestione e mera collaborazione.
L'attività prestata dal familiare deve essere continuativa e quindi svolta con costanza e regolarità nel tempo non significa attività esclusiva o a tempo pieno, sempre che non si tratti di attività meramente sporadica od occasionale.
L'elemento della continuità non implica nemmeno quello della prevalenza.
L'articolo 230 parifica il lavoro svolto in famiglia a quello svolto nell'impresa; l'attività prestata in ambito domestico può  ritenersi collaborazione solo  sé funzionale all'accrescimento della produttività dell'impresa.
I familiari che hanno titolo per partecipare all'impresa familiare sono: il coniuge, i parenti entro il III grado e gli affini entro il II; la legge ammette la partecipazione dei minori, rappresentati, non si richiede il requisito della convivenza tra i familiari.
Per il coniuge, problema principale è stabilire sé la separazione ed il divorzio determinano automaticamente la perdita dei diritti connessi alla partecipazione; si vuole distinguere la separazione che non fa venir meno lo stato del coniuge, dal divorzio che, estinguendolo, determina la cessazione automatica del rapporto con l'impresa.


Il familiare che ha diritto di partecipare all'impresa ha diritto al mantenimento svincolato dall'andamento economico dell'impresa ed è commisurato alla condizione patrimoniale della famiglia. Ha poi diritto ad una quota degli utili dell'impresa, dei beni acquistati con essi, degli incrementi dell'azienda, in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
Il diritto di partecipazione non può essere ceduto sé non in favore di una persona che abbia i requisiti per partecipare all'impresa familiare e con il consenso di tutti i partecipanti; in caso di trasferimento dell'azienda o di successione ereditaria, ai familiari è riconosciuto diritto di prelazione sull'azienda con facoltà di riscatto da terzi acquirenti.
Il rapporti di impresa familiare può cessare per circostanze che riguardano l'esercizio dell'attività d'impresa (morte imprenditore, cessazione attività d'impresa, fallimento) o per circostanze che riguardino il familiare partecipe (morte, recesso, sopravvenuta impossibilità
di prestare attività lavorativa, perdita status familiae).
In tutti i casi il lavoratore ha diritto alla liquidazione dei diritti che gli spettano.



















CAPITOLO 5: LE UNIONI DI FATTO


-Matrimonio e convivenza. Le unioni omosessuali


Il matrimonio dà origine al vincolo coniugale e genera obblighi cui non è possibile sottrarsi liberamente; ha poi effetti tipici: presunzione di paternità dei figli generati nel matrimonio, previsione di un regime patrimoniale legale, disciplina legale della separazione e divorzio, diritti successori del coniuge.
La famiglia fondata sul matrimonio non esaurisce le varietà di relazione di tipo familiare; emergono infatti nella società odierna famiglie e convivenze di tipo diverso, che in Italia restano ancora prive di disciplina.
Con una risoluzione del 2000 il Parlamento europeo ha chiesto agli Stati membri di garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e a quelle dello stesso sesso, parità di diritti rispetto alle coppie ed alle famiglie tradizionali, soprattutto n materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali.
La Carta dei diritti fondamentali dell'UE riconosce poi tra le libertà fondamentali tutelate, il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che ne garantiscono l'esercizio.
Il diritto di sposarsi e quello di costituire famiglia sono riconosciuti disgiuntamente: si attua
un'apertura nei confronti delle famiglie di fatto poiché il diritto alla costituzione della famiglia è tutelato anche al di fuori del matrimonio.
La Carta di Nizza poi, tutela i rapporti familiari indipendentemente dal fatto che si fondino sul matrimonio o siano costituiti in maniera diversa; cade poi il riferimento alla diversità di sesso degli sposi: si apre la via al riconoscimento delle coppie omosessuali e del matrimonio tra omosessuali già compiuto da alcune legislazioni nazionali. Questo non priva il legislatore del diritto a non uniformarsi alla tenenza, poiché il diritto a sposarsi ed alla costituzione delle famiglia è garantito sulla base delle regole nazionali che ne disciplinano l'esercizio.
Il riconoscimento di uno status matrimoniale alle persone dello stesso sesso non è imposto, nel rispetto delle diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei e dell'identità nazionale degli Stati membri.
In Italia, il principio dettato dalla Carta di Nizza vale come criterio interpretativo nei casi in cui i giudici debbano risolvere questioni relative a coppie di fatto, poiché sottolinea la legittimità della scelta di convivere senza matrimonio e la meritevolezza degli interessi perseguiti.
La tendenza a volte è quella di legittimare le unioni non formalizzate, ma tuttavia, a volte sono richieste formalità quali la registrazione presso un pubblico ufficio: questa scelta può avere effetti limitati o avere quasi completa equiparazione rispetto al matrimonio.
Il principio di non discriminazioni sulla base delle tendenze sessuali viene affermato nel TFUE (art 10) e ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE (art 21), ora integrata nel TUE (art 6).
Nel campo familiare detto principio dovrebbe esplicarsi nella pari opportunità di accesso alla formalizzazione del rapporto di coppia, con il matrimonio o istituzione comparabile.
In Italia manca una regolamentazione delle convivenze; progetti di legge si sono succeduti nel tempo ma non sono giunti ad una decisione in aula.
Il fatto che manchi una legge non implica che la famiglia di fatto sia fenomeno fuori ogni
regola: anche in Italia si si assiste ad un processo di giuridificazione con fonti diverse: autonomia privata; regole giurisprudenziali; normativa speciale.
Chi si pone in contrasto alla disciplina delle unioni di fatto è solito invocare l'articolo 29 della Costituzione assumendo che il riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio costituisce ostacolo alla tutela di qualsiasi convivenza diversa da quella legittima. Ci si dimentica per dell'articolo 2 che garantisce protezione ad ogni formazione sociale in cui si svolge la personalità umana e quindi ogni unione anche diversa da quella matrimoniale che realizzi una comunione di vita, alimentata dall'affetto e dalla solidarietà.
NB: la giurisprudenza delle supreme magistrature interne ed europee considera le unioni non coniugali come luogo di espressione della personalità individuale, si esercitano diritti fondamentali e si adempiono doveri di solidarietà e si realizza la vita familiare.
La Corte di Strasburgo (CEDU) ha iscritto la tutela delle unioni non coniugali nell'ambito del rispetto della vita familiare; si smentisce dunque la teoria secondo la quale possono essere considerate familiari solo le relazioni che si fondano sul matrimonio. La Corte ritiene che costituiscano famiglia anche le relazioni che si dispiegano nell'ambito delle unioni non coniugali.
Secondo la Corte costituzionale, indifferentemente alle coppie di sesso diverso e a quelle dello stesso sesso, spetta il diritto di vivere liberamente in una condizione di coppia ottenendo il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri; il riconoscimento è affidato alla discrezionalità del legislatore per quanto riguarda i suoi tempi ed i limiti, ma l'art 2 lo rende costituzionalmente obbligato ad attuarlo.
Il legislatore si vede attribuita un'obbligazione positiva relativa all'assicurare il riconoscimento, dignità e tutela alle unioni non coniugali; l'aspirazione a tale riconoscimento poi, pone la necessita una disciplina di carattere generale che deve essere finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia, anche sé non è detto che la disciplina possa essere realizzata attraverso la mera equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio.
La Corte costituzionale ha dichiarato che il mancato riconoscimento del matrimonio omosessuale non contrasta con le previsioni agli articoli 3 e 29 della Costituzione, me è vero che secondo l'articolo 2 della stessa spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e riconoscimento delle suddette unioni; la Corte di cassazione ha precisato poi che le coppie dello stesso sesso possono adire i giudici comuni per far valere in presenza di specifiche situazioni il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alle coppie coniugate; in tale sede può eventualmente sollevare le questioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni applicabili alle singole fattispecie.
Le due corti indicano tra i compiti della giurisdizione quello di dare risposta ai problemi giuridici della convivenza tra gli strumenti a propria disposizione.


NB: l'articolo 29 della Costituzione assicura alla famiglia fondata sul matrimonio una tutela specifica ma non esclusiva; riconoscimento delle unioni di fatto non significa equipararle alla famiglia legittima perché famiglia di fatto e famiglia legittima restano fenomeni distinti che non si possono uniformare.
Si deve rispettare la libertà di chi ha scelto di vivere al di fuori degli schemi legali e dei vincoli formali ma non si deve trascurare il dovere di far valere le responsabilità assunte nei
confronti dei figli e gli affidamenti generati nel partner.


Nella famiglia di fatto si trova in primo piano non l'atto costitutivo del vincolo, ma il rapporto, la vita comune, la solidarietà che con essa si manifesta; si sottolineano le differenze che conseguono dai due diversi fondamenti: l'uno un atto formale che genera un vincolo, l'altro il consenso continuamente rinnovato, la libertà degli affetti e la solidarietà reciproca.
In Italia le unioni non coniugali non sono ancora state fatte oggetto di specifica disciplina ma non sono prive di rilevanza giuridica: rientrano infatti nella previsione fatta all'articolo 2 della Costituzione e dunque il legislatore ne tutela i vincoli di affetto e solidarietà che ne sono il fondamento.
La legge 54/2006 che tutela l'affidamento dei figli in caso di separazione, dispone l'applicazione delle regole contenute in essa anche ai procedimenti di scioglimento delle unioni non coniugali: si formalizza il procedimento di separazione della coppia di fatto.
Da un lato il legislatore non disciplina le unioni di fatto per il timore di favorire l'affermazione di principi di ordine generale è che il matrimonio ne risulti svilito, dall'altro però con interventi di settore porta all'equiparazione della posizione del convivente a quella del coniuge in una pluralità di rapporti con i privati, con i pubblici poteri, in quelli con i figli e talvolta, in caso di condotta violenta, anche in quelli di coppia.
Anche il diritto penale sancisce una valorizzazione dei vincoli di solidarietà che animano i rapporti di fatto e sanziona la loro violazione.




-Famiglia di fatto e filiazione


Nella riforma del 1975 la convivenza è presa in considerazione dall'ex articolo 317 bis, ora 316, che nella disciplina della potestà genitoriale sui figli disponeva che, sei genitori sono conviventi, alla potestà sono applicate le norme relative a quella dei genitori sui figli legittimi; questa norma per la prima volta fa emergere la convivenza nella disciplina del codice civile e sottolinea le intersezioni esistenti tra il problema relativo ai rapporti tra conviventi e quello dei rapporti tra genitori e figli.
Filiazione naturale e famiglia di fatto possiedono punti di contatto. La parificazione della prole nata fuori del matrimonio si spiega con una maggiore attenzione dell'ordinamento ai vincoli di affetto rispetto a quelli formali e si traduce in una maggiore rilevanza attribuita alle relazioni familiari non legalmente formalizzate.
La previsione dell'ex articolo 317 bis voleva assicurare alla prole nata fuori del matrimonio, la tutela più ambia possibile: questo intento richiedeva che le relazioni di coppia nell'esercizio della potestà fossero disciplinate in maniera omogenea nel e fuori del matrimonio e che anche i genitori non sposati conviventi fossero soggetti alla regola dell'accordo per le decisioni prese nei confronti dei figli.
Unificato lo status del figlio dunque, anche la disciplina che riguarda la responsabilità genitoriale è parificata nel e fuori del matrimonio; non sono presi in considerazioni i coniugi ma i genitori in quanto tali.
Anche per quanto riguarda l'obbligo di mantenimento dei figli, questo deve essere assolto in ogni caso: l'essere genitori dà luogo ad un obbligo di collaborazione al mantenimento del figlio su cui si intessono sia rapporti genitori-figli, sia relazioni tra genitori, che non hanno origine nel matrimonio ma nella procreazione comune che impone di perseguire al meglio l'interesse del figlio.
Anche nel momento della crisi, la necessità di dare provvedimenti nell'interesse dei figli, fa sì che la disciplina della famiglia di fatto corrisponda a quella prevista per la separazione ed il divorzio per quanto concerne i rapporti tra genitori e figli.
La legge 54/2006 ed ora gli artt 337 e seguenti dispongono che l'affidamento dei figli in seguito alla crisi della coppia coniugata o non,il loro mantenimento, l'assegnazione della casa familiare siano oggetto di unica disciplina.
L'unificazione dello status del figlio ha ricadute sulla famiglia di fatto sia a livello di principi che a livello di disciplina dei rapporti sociali interni alla famiglia di fatto.




-I rapporti personali tra conviventi


Sé si considerano i rapporti tra i conviventi, centrale è il tema relativo ai rapporti tra libertà di vivere fuori fagli schemi formali e vincoli giuridici, e le responsabilità derivanti dall'esercizio di tali libertà.
Mentre il matrimonio genera diritti e doveri reciproci di fedeltà, assistenza e coabitazione, contribuzione nell'interesse della famiglia, tra conviventi non si instaura alcun obbligo giuridico vincolante; ciascuno è libero di interrompere la convivenza senza l'intervento del giudice o di altro pubblico funzionario.
Tra conviventi non esiste alcuna presunzione di paternità e non si instaura un regime patrimoniale legale di comunione dei beni, non sussiste alcun diritto sulla successione dell'altro.
Per quanto riguarda i rapporti personali si può dire che il fatto di convivere, assistendosi, contribuendo ai bisogni comuni e riservando all'altro il posto di compagno nella propria vita, rende riconoscibile come convivenza “more uxorio” una certa unione.
L'articolo 342 cc prevede che il giudice possa disporre ordini di protezione contro gli abusi familiari quando la condotta del coniuge o altro convivente sia causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente; anche il diritto penale sancisce principi in questa direzione: l'articolo 572 cp si applica all'uomo che tiene comportamenti qualificabili in ipotesi di maltrattamento familiare nei confronti della
convivente.
Anche la legge 6671996 sulla violenza sessuale si muove nella stessa direzione attribuendo rilevanza alle relazioni di convivenza si per la qualificazione come presunta della violenza compiuta ai danni di un minore, sia ai fini della procedibilità d'ufficio.
Il rapporto di solidarietà ed assistenza reciproca che alimenta la convivenza merita tutela: sarebbe ingiusto che il convivente non possa attingere ad alcune delle facoltà riconosciute al coniuge.



-I rapporti patrimoniali


La regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra conviventi è questione che in concreto si pone nel momento in cui l'unione entra in crisi: si deve decider sé contributi, apporti, liberalità effettuate durante la convivenza debbano essere restituiti.
Si pone inoltre il problema della tutela del convivente che si venga a trovare in condizione di maggiore debolezza per il futuro.
I contributi che i conviventi hanno dato per contribuire alla vita comune sono irripetibili perché si qualificano come adempimento di una obbligazione naturale, obbligo che pur non trovando sanzione giuridica ha il fondamento in regole del buon costume o della morale.
La giurisprudenza stabilisce che il discrimine tra l'obbligazione naturale e l'atto di liberalità è da individuarsi nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l'adempiente risponde e l'interesse da soddisfare.
La differenza più sensibile tra matrimonio e convivenza riguarda il regime patrimoniale legale: tra i coniugi in assenza di patto contrario la comunione è regime legale e i beni acquistati dopo il matrimonio appartengono ad entrambi per poi essere divisi in parti eguali allo scioglimento.
Tra i conviventi invece il regime di comunione non opera e ciascuno è proprietario esclusivo dei beni acquistati
altra differenza riguarda l'assenza di tutela per il convivente in caso di morte dell'altro: questa può essere garantita solo tramite testamento che è pur sempre revocabile; è comunque affidata alla buona volontà dell'altro.
Nel caso di separazione il convivente non ha diritto ad alcun assegno, soluzione ingiusta sé all'interno della convivenza esistano situazioni di debolezza o dipendenza.
La tutela del convivente può essere affidata ad una convenzione, un contratto, nel quale si regolano i rapporti patrimoniali in costanza di convivenza e successivamente alla crisi: con queste si intendono tutelare affidamenti sulla base di esperienze di vita comune, riconoscere il valore degli apporti personali alla formazione del patrimonio comune.
Il contenuto degli accordi di convivenza è affidato all'autonomia delle parti che possono quantificare gli apporti di ciascuno alla convivenza, stabilire diritti d'uso sui beni dell'altro, prevedere i diritti che spettano alla fine della convivenza sia in termini di proprietà di beni che di prestazioni pecuniarie.
Con il contratto non si può dar vita ad una comunione efficacie anche nei confronti di terzi. Ultima via percorribile è quella dell'intervento del legislatore che senza operare una parificazione tra matrimonio e convivenza ne disciplini gli aspetti salienti.




-I rapporti con i terzi


La tutela del rapporto di fatto opera anche nei confronti di terzi; la tutela della famiglia di fatto nei rapporti con i terzi, nei limitati casi in cui è concessa, si muove nella linea dell'applicazione di regole proprie del diritto comune mediate dal riconoscimento del carattere familiare delle relazioni che si sviluppano nella convivenza e della tutela che in quanto relazioni di famiglia, alle stesse compete.









CAPITOLO 6: NULLITÀ, SEPARAZIONE E DIVORZIO. I PRESUPPOSTI


-La crisi del matrimonio: nullità, separazione e divorzio
Nullità, separazione e divorzio sono le risposte dell'ordinamento alla crisi del rapporto coniugale; le differenze tra i tre sono piuttosto nitide: la nullità rappresenta anomalia dell'atto che non è validamente a causa di vizi antecedenti o contemporanei alla celebrazione. La separazione ed il divorzio dipendono invece da circostanze, normalmente sopravvenute, che influiscono sul rapporto coniugale.
Mentre il divorzio determina lo scioglimento del matrimonio e la perdita dello status coniugale, con la separazione il vincolo non viene meno e rimane in forma attenuata.
I tre istituti svolgono una funzione unitaria di rimedio al fallimento della vita comune; nel diritto italiano però non si ha coordinamento tra disciplina dell'invalidità e disciplina dello scioglimento del matrimonio; si conserva la tradizionale differenza relativa agli effetti patrimoniali dell'uno e dell'altra.
In caso di divorzio il coniuge debole ha diritto ad un assegno che tende a consentirgli lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; nel caso di invalidità il coniuge in buona fede ha solo diritto ad un assegno temporaneo o all'indennità.




-L'invalidità del matrimonio
-Principi e problemi di ordine generale


Nella disciplina del codice del 1942 si avevano casi limitati in cui l'impugnazione era ammissibile e brevi termini di decadenza dell'azione corrispondente; si aveva quindi tutela degli status e rilevanza dell'interesse generale alla salvaguardia della famiglia come istituzione portatrice di valori superiori rispetto a quelli dei singoli.
La legge del 1975 è caratterizzata da una maggiore attenzione alla libertà e consapevolezza del consenso degli sposi: si attribuisce maggiore rilevanza ai vizi del volere ed è prevista la simulazione come causa di invalidità; vengono ampliati i termini di decadenza dell'azione di invalidità (1 anno); in molti casi poi la convivenza coniugale attuata nonostante la celebrazione di matrimonio invalido preclude la possibilità di impugnare il matrimonio stesso.
La riforma del diritto di famiglia ha ampliato le cause di invalidità del matrimonio; nel caso del matrimonio invalido, l'invalidità opera sempre e solo in presenza di una sentenza che privi degli effetti il matrimonio; fino a quel momento i coniugi possono avvalersi del loro status coniugale e degli effetti riconosciuti allo stesso per legge.
Intervenuta la sentenza di annullamento gli effetti del matrimonio non sono eliminati
retroattivamente in quanto la nullità opera generalmente ex nunc: questo vale per gli effetti relativi ai figli. Anche quando la mala fede è rilevante, va sempre provata dall'altra parte.
NB: l'annullamento opera come una causa di scioglimento del matrimonio: impedisce al matrimonio di produrre nuovi effetti ma non elimina quelli che si sono già prodotti in passato.
I tradizionali criteri di distinzione, legittimazione, prescrizione e sanabilità del vizio, non si adattano alla materia matrimoniale: si riscontrerebbero ipotesi che secondo gli stessi sarebbero di annullabilità mentre la legittimazione sarebbe concessa a tutti gli interessati, ed ipotesi configurabili come nullità fatte valere solo dai coniugi e sanabili. Le invalidità non sarebbero ipotesi di annullabilità.
Anche in materia matrimoniale però sussisterebbero ipotesi di nullità per i vizi di ordine pubblico per le quali l'azione è imprescrittibile, ed ipotesi di annullabilità in tutti gli altri casi per le quali valgono i termini di prescrizione ordinaria. Si affiancano poi ipotesi di inesistenza che rappresenta vizio ancora più grave dell'invalidità che sussiste qualora manchino gli elementi minimi ed essenziali per poter qualificare come matrimonio la fattispecie concreta; quando il matrimonio è inesistente non produce alcun effetto.
La giurisprudenza intende l'inesistenza come inesistenza di fatto: “mancanza della realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie”; l'inesistenza deriva dalla mancanza di elementi essenziali richiesti per identificare la fattispecie negoziale: celebrazione formale, consenso degli sposi.
L'elenco dei casi di invalidità del matrimonio fornito all'elenco 117 cc non è tassativo poiché si ammettono casi di nullità atipiche ogni volta che si verifica una violazione di norme imperative non derogabili dalla volontà privata.
Si parla anche di matrimonio irregolare quando presenti anomalie irrilevanti sul piano della validità, ma che comportano l'applicazione di una sanzione giuridica.
L'azione di nullità del matrimonio è rimedio qualificabile nelle regole generali del processo civile; è competente per materia il Tribunale mentre la competenza per territorio spetta al giudice del luogo in cui il convenuto ha residenza o domicilio.
Il PM deve obbligatoriamente intervenite ed il procedimento è quello del normale processo contenzioso.
Quando è proposta una domanda di nullità del matrimonio, il Tribunale può, su istanza di uno dei coniugi, ordinare la loro separazione temporanea durante il giudizio; sé uno dei coniugi è minore o interdetto, può anche disporla d'ufficio.
Il Tribunale deve adottare i provvedimenti provvisori relativi ai coniugi ed alla prole e gli effetti di questi provvedimenti sono necessariamente temporanei essendo destinati a perdere efficacia con il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, restando fermi fino a
tale sentenza.
Sé vi sono figli la sentenza di annullamento deve sempre contenere i provvedimenti relativi al loro affidamento e mantenimento; la sentenza di annullamento può contenere anche provvedimenti relativi ai coniugi quando vi sia domanda di assegno temporaneo o indennità.




-Le cause di invalidità del matrimonio: bigamia, incesto, delitto


Bigamia, incesto e delitto sono le cause più gravi di invalidità del matrimonio poiché contrastano direttamente con i principi fondamentali del nostro ordinamento; costituiscono impedimenti alla celebrazione del matrimonio e sono cause di nullità del matrimonio eventualmente celebrato.
In tutti questi casi è prevista la più ampia legittimazione ad agire:
1.Coniugi (anche coniuge bigamo);
2.Ascendenti prossimi;
3.Pubblico ministero e tutti coloro che abbiano interesse legittimo ed attuale;
4.Parenti.
Sono invalidità non sanabili per effetto della convivenze e per alcune si stabilisce imprescrittibilità; insanabilità, imprescrittibilità ed estesa legittimazione ad agire, sono poste a presidio dell'interesse generale.




-Minore età, interdizione, incapacità naturale


Il matrimonio è invalido ogniqualvolta gl sposi difettino della capacitò necessaria ad esprimere il consenso al matrimonio:
a)Minore età: il minore non può contrarre matrimonio; sé nonostante il divieto il matrimoni è celebrato sarà invalido sia nel caso in cui il minore non abbia compiuto 16 anni sia nel caso in cui, avendoli compiuti, non abbia ottenuto l'autorizzazione del Tribunale per i minorenni. L'azione è proponibile dall'uno e dall'altro coniuge, da ciascuno dei genitori e dal PM. La legittimazione ad agire è più ristretta.
Il minore può porre personalmente l'azione che può essere proposta a sua volta anche dal coniuge; legittimazione è poi riconosciuta ai genitori ed al PM ma non al tutore.
L'azione proposta dal PM e dai genitori può essere paralizzata dall'insorgere di alcune
circostanze:
-il fatto che il minore raggiunga la maggiore età;
-che si sia verificato concepimento;
-che sia nato un figlio.
In questi casi l'azione deve essere respinta sé risulta la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale.
Il minore non può porre in essere l'azione oltre il termine di decadenza di 1 anno dal compimento della maggiore età lo stesso termine vale per tutti i soggetti legittimati.
b)Interdizione per infermità di mente: l'interdetto giudiziale diversamente da quello legale, dall'inabilitato e dall'amministrato di sostegno, non può contrarre matrimonio.
Sé il matrimonio è ugualmente celebrato può essere annullato sia nel caso in cui l'interdizione fosse già pronunciata al momento della celebrazione, sia quando la sentenza sia pronunciata dopo il matrimonio ma per infermità preesistente rispetto allo stesso.
Legittimati sono il tutore, il PM, l'interdetto dopo la revoca dell'interdizione e anche tutti cloro che abbiano interesse legittimo ed attuale (novità riforma); l'innovazione vuole garantire migliore protezione del soggetto incapace, pur rischiando di far prevalere interessi estranei alla vita familiare.
La coabitazione protratta per 1 anno dopo la revoca dell'interdizione sana l'invalidità e impedisce l'esercizio dell'azione da parte di qualsiasi legittimato; la coabitazione deve risultare ininterrotta e deve intendersi come convivenza come coniugi. Sé non si verifica la decadenza, si ritiene che l'azione si prescriva nel termine ordinario di 10 anni dalla celebrazione del matrimonio o dalla sentenza di revoca dell'interdizione.
c)Incapacità naturale: il matrimonio è annullabile quando sia concluso da persona che non interdetta, si trovi per qualsiasi causa, anche transitoria, nella condizione di essere incapace di intendere e volere.
Mentre per gli atti a contenuto patrimoniale compiuti dall'incapace naturale si richiede quale requisito ulteriore il pregiudizio per lo stesso e la malafede dell'altro contraente, il matrimonio è annullabile a partire dal solo presupposto dell'incapacità dello sposo. Si vuole far prevalere l'interesse dell'incapace di liberarsi di uno status assunto senza piena consapevolezza, rispetto all'affidamento dell'altro sposo.
La tutela dell'altro coniuge si traduce nella garanzia di stabilità al vincolo qualora vi sia stata convivenza per almeno 1 anno dal recupero della pienezza delle facoltà mentali dell'incapace.
L'incapacità naturale può derivare da una malattia mentale cui non fa seguito l'interdizione, da disturbi psichici anche temporanei, da disturbi fisici capaci di influire sula capacità di determinazione del soggetto, da processi degenerativi nell'anziano.
Legittimato ad agire è solo il coniuge incapace; l'altro coniuge può eventualmente porre azione di annullamento per errore.
L'azione non può essere proposta sé vi sia stata collaborazione per 1 anno dal momento in cui l'incapace ha ripreso il pieno possesso delle sue facoltà mentali, altrimenti si prescrive nell'ordinario termine decennale.




-I vizi del consenso


la legge del 1975 ha ampliato la rilevanza dei vizi della volontà comprendendovi accanto alla violenza e all'errore sull'identità, l'errore su qualità essenziali ed il timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi.
La gamma dei vizi del consenso, tuttavia, non comprende ogni possibile vizio: restano esclusi il dolo, l'errore determinante avente ad oggetto circostanze diverse da quelle prevista all'art 122 cc.
La previsione di un termine di decadenza per effetto della convivenza protratta per almeno 1 anno dal venir meno della violenza o delle cause di timore o dalla scoperta dell'errore esprime l'esigenza che la situazione di incertezza sia rimossa in tempi ragionevoli e che ai rapporti familiari sia assicurata stabilità.
Nella disciplina civilistica quindi la tutela degli interessi privati dei coniugi non è mai disgiunta dal riconoscimento del valore sociale della famiglia e degli status.
Quando l'invalidità dipende dai vizi del consenso è legittimato il coniuge il cui consenso è stato viziato; l'altro coniuge ha legittimazione solo passiva e non può impugnare il matrimonio. Il PM non può proporre l'azione ma deve intervenire e può impugnare la sentenza.
L'azione non è proponibile sé c'è stata coabitazione per 1 anno dalla cessazione della violenza, dal venir meno delle cause determinanti il timore o dalla scoperta dell'errore;la convivenza come coniugi può essere considerata circostanza che sana o conferma il matrimonio viziato.
L'attuazione del rapporto preclude l'impugnativa dell'atto quando nonostante il vizio originario si sia costituita famiglia.
Sé non interviene la decadenza dell'azione, questa è soggetta a termine ordinario di 10 anni.


1.VIOLENZA: il matrimonio è annullabile quando il consenso del coniuge sia viziato da violenza morale; la violenza fisica anche sé difficilmente configurabile costituisce
invece ipotesi di mancanza del consenso.
Anche la violenza nel matrimonio, come quella nel contratto, è rilevante a condizione che si tratti di minaccia di un male ingiusto e notevole, capace di far impressione su di una persona sensata. La violenza deve avere come scopo la celebrazione del matrimonio ed è rilevante sé compiuta dall'altro sposo o da terzi.
2.TIMORE DI ECCEZIONALE GRAVITÀ DERIVANTE DA CAUSE ESTERNE ALLO SPOSO: è un nuovo vizio del volere introdotto dalla riforma e si riferisce a tutte le situazioni in cui lo stato psicologico di timore sia generato nell'animo dello sposo non daminaccia diretta allo scopodella celebrazione delle nozze non volute, ma da circostanze diverse in cui il matrimonio, pur senza essere imposto, rappresenta la via per sottrarsi a tale male temuto. Il timore di eccezionale gravità, come quello generato dalla violenza, deve provenire da causa esterna configurabile sia in un comportamento umano che in una situazione soggettiva; non basta un sentimento di angoscia o disperazione che insorga spontaneamente nell'animo dello sposo.
Il timore si distingue dalla violenza per il fatto di non essere generato da una minaccia diretta ad estorcere il consenso matrimoniale; i fatti esterni non sono finalizzati alla conclusione del matrimonio, rilevando nella loro oggettività: è lo sposo che vede nel matrimonio la possibilità di sottrarsi a quei fatti.
Il timore deve essere di eccezionale gravità: determinato da persecuzioni politiche, razziali e religiose; da gravi difficoltà economiche o familiari; da forme di intimidazione.
La configurazione delle due distinte ipotesi di violenza e timore mirano alla realizzazione di una più intensa tutela della libertà del consenso matrimoniale contro la coazione esercitata dalle persone o dalle circostanze.
L'esercizio dell'azione le ipotesi configurabili sotto il profilo della simulazione richiede che non sia decorso 1 anno dalla celebrazione e che non vi sia stata celebrazione dopo il matrimonio; l'azione per quelle che riguardano violenza e timore sono soggette a termine di prescrizione ordinaria.
3.ERRORE: la disciplina vigente contempla accanto all'errore sull'identità dell'altro sposo anche l'errore su qualità personali tali da escludere il consenso matrimoniale.
È previsto un elenco tassativo di casi in cui l'errore è essenziale; l'articolo 122 fa riferimento ad ipotesi di ignoranza e non di vero e proprio errore, salvo quella che riguarda la convinzione di essere l'autore della gravidanza. Si deve trattare di errore determinante il consenso cioè in tutti quei casi in cui, tenuto conto delle condizioni dell'altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il consenso sé le avesse esattamente conosciute.
-esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale: la malattia o deviazione deve essere
preesistente al matrimonio e deve essere stata ignorata o non sufficientemente conosciuta dall'altro; l'ignoranza deve riguardare le sue manifestazioni esteriori socialmente percepibili. Deve trattarsi di patologie che impediscono lo svolgimento della vita coniugale.
Impotenza perpetua, transessualismo e omosessualità.
-esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non inferiore a 5 anni
-dichiarazione di delinquenza abituale o professionale
-condanna dell'altro coniuge per delitti concernenti la prostituzione ad una pena non inferiore a 2 anni;
-Errore sulle qualità personali: stato di gravidanza causato da persona diversa dal marito.





-Il matrimonio simulato


L'art 123 prevede la possibilità di impugnare il matrimonio quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere gli obblighi e di non esercitare i diritti che ne discendono.
Si tratta delle ipotesi di matrimonio celebrato per soddisfare il desiderio di un genitore in fin di vita o per porre fine alle insistenze dei genitori alla regolarizzazione di una situazione pregressa o per affrancarsi dalla rigida autorità parentale.
In tutti i casi comunque il matrimonio è voluto non per dar vita al rapporto coniugale ma perché utile di per sé; nella simulazione si realizza contrasto tra situazione effettiva e realtà formale che l'ordinamento vuole rimuovere con l'impugnazione del matrimonio.
La disciplina prevede l'irrilevanza della semplice riserva mentale richiedendo la necessaria sussistenza di un accordo simulatorio anteriore alle nozze; è poi previsto un rigido termine di decadenza che non consente di esercitare l'azione decorso 1 anno dalla celebrazione del matrimonio o quando vi sia convivenza successiva al matrimonio.
L'intesa simulatoria deve avere ad oggetto l'esclusione dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio nel loro complesso, non bastando l'esclusione di un singolo diritto o dovere; la norma non dà rilevanza ai motivi che hanno determinato la simulazione.
L'ambito di applicazione della norma è quindi molto ampio per comprendere anche matrimoni di compiacenza.
Il decorso del termine annuale, sé impedisce che il matrimonio sia impugnato per simulazione, non preclude altri possibili rimedi; nei casi di matrimoni di salvataggio è proponibile, alla presenza delle circostanze necessarie, l'impugnativa per timore di eccezionale gravità.
Sé poi è mancata la convivenza e la consumazione, si potrà ottenere il divorzio.
La legittimazione ad impugnare il matrimonio spetta ai coniugi esclusivamente in quanto portatori dell'interesse a liberarsi di un vincolo non voluto.




-Rapporti tra nullità, separazione e divorzio


La dichiarazione di nullità del matrimonio impedisce la successiva pronuncia di separazione; nel caso in cui i coniugi fossero già separati, l'annullamento fa venir meno gli effetti economici della separazione e trovano applicazione solo le disposizioni relative al matrimonio putativo. Gli effetti della separazione però non vengono meno ex tunc, ma ex nunc, al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento o di quella della Corte d'appello con cui è resa efficace la sentenza ecclesiastica di nullità.
La separazione è regolamentazione legale del rapporto tra coniugi e deve mantenere i suoi effetti fino a quando non sopraggiunga l'annullamento; dunque sé il giudizio di separazione è in corso, il sopravvenire dell'annullamento determina la cessazione della materia del contendere in materia di separazione ma non riguardo ai provvedimenti economici la cui efficacia viene meno solo in seguito all'annullamento.
La dichiarazione di nullità preclude una successiva pronuncia di divorzio mentre la pronuncia di divorzio non preclude quella successiva di nullità o la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica.
Pur essendo la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, ammissibile anche dopo il divorzio, non incide sui diritti patrimoniali acquisiti definitivamente dai coniugi per effetto del giudicato di divorzio.




-L'invalidità del matrimonio concordatario


L'articolo 8 della Accordo del 1984 tra Stato e Chiesa disciplina l'efficacia civile del matrimonio canonico trascritto; dispone poi le condizioni per rendere efficaci nell'ordinamento le sentenze di nullità dei matrimoni canonici pronunciate dai Tribunali ecclesiastici. Le nuove regole danno maggiore rilievo alla volontà dei coniugi di far conseguire effetti civili alla sentenza ecclesiastica e prevedono un maggiore potere di controllo della Corte d'appello in sede di delibazione delle sentenze ecclesiastiche.
Il concordato del 1929 riservava a Tribunali ecclesisatici la giurisdizione sulle cause di nullità del matrimonio concordatario; ora con l'Accordo non è più prevista la riserva: la nullità dei matrimoni concordatari può essere pronunciata anche dai giudici civili secondo norme del codice civile. Si ha dunque concorso di giurisdizione sulla nullità del matrimonio concordatario.
Il procedimento per attribuire efficacia civile alle sentenze ecclesiastiche di nullità si svolge dinnanzi alla Corte d'appello nel cui distretto si trova il comune nel quale il matrimonio è stato trascritto; questo presuppone che la sentenza ecclesiastica sia munita del decreto di esecutività del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Il procedimento di delibazione ha luogo su domanda delle parti o di una di esse: è necessaria la volontà dei coniugi o di almeno uno di essi per far venire meno gli effetti civili del matrimonio canonico trascritto; non è più possibile che la procedura sia avviata d'ufficio mediante trasmissione degli atti da parte della Segnatura Apostolica.
La Corte d'appello deve accertare:
a)che il giudice ecclesiastico fosse quello competente a conoscere la causa;
b)che nel procedimento davanti ai Tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in conformità ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano
c)che ricorrano le condizioni richieste dal legislatore per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere e soprattutto che la sentenza ecclesiastica non contrasti con l'ordine pubblico.
Il controllo della Corte deve riguardare quei principi fondamentali dell'ordinamento italiano tenendo conto della specificità dell'ordinamento canonico.
Il controllo sull'ordine pubblico intende evitare che la via ecclesiastica alla nullità del matrimonio dia luogo a disparità di trattamento tra cittadini troppo marcate, dovute alla diversa disciplina della nullità presente nell'ordinamento civile e canonico.
Nella nozione di ordine pubblico rientrano quelle regole fondamentali poste non solo dalla Costituzione ma anche da leggi ordinarie che contribuiscono a delineare la struttura dei diversi istituti; non ogni differenza con il diritto civile dunque determina contrasto con l'ordine pubblico.
Si ritiene compatibile con i principi di ordine pubblico la differenza tra due ordinamenti in tema di incapacità di intender e volere in relazione all'incapacità di assumere gli oneri coniugali, o in ordine alla disciplina dell'impedimento derivante da consanguineità. Sono inoltre irrilevanti le differenze esistenti nella disciplina della simulazione, della violenza e del timore.
I problemi maggiori si pongono in relazione all'ipotesi della riserva mentale quando uno
solo degli sposi abbia ritenuto di escludere l'obbligo di fedeltà; la Corte ha affermato il principio secondo il quale contrasta con l'ordine pubblico la sentenza canonica che abbia pronunciato la nullità del matrimonio per l'esclusione di uno degli doveri derivanti dal matrimonio che sia rimasta  nella sferapsichica del suo autore. La sentenza potrà essere ritenuta esecutiva qualora l'esclusione sia stata manifestata all'altro coniuge: il principio fondamentale che entra in gioco, a parere della Corte è quello dell'affidamento incolpevole. Nel caso in cui i giudici ecclesiastici abbiano pronunciato la nullità per riserva mentale, manifestata all'altro coniuge, le Sezioni Unite hanno escluso la sussistenza della violazione del principio di affidamento incolpevole quando il coniuge, che non ha simulato il consenso, invece di opporsi, aderisca alla domanda di annullamento proposta dall'altro o la promuova egli stesso.
Disparità di trattamento sussiste dal momento che il diritto italiano prevede che l'annullamento del matrimonio simulato non possa essere proposto oltre l'anno dalla celebrazione o quando i coniugi abbiano convissuto dopo il matrimonio; il diritto canonico non prevede invece alcun termine di prescrizione né dà rilevanza al verificarsi ed al protrarsi della convivenza coniugale.
Secondo il recente orientamento delle Sezioni Unite la convivenza come coniugi protrattasi per almeno 3 anni dalla celebrazione del matrimonio, poiché costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie di ordine pubblico italiano, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario.
La convivenza è costitutiva di legami familiari ed integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio come rapporto al quale la Costituzione garantisce preminente tutela.
Tale pronuncia consente alla parte che vi abbia interesse di opporsi al riconoscimento degli effetti civili della sentenza ecclesiastica di nullità, tutte le volte in cui la domanda di annullamento venga proposta dopo 3 anni di vita comune.



-Separazione e divorzio


La disciplina della crisi del matrimonio contenuta nel codice civile del 1942 era dominata dal principio di indissolubilità; l'interesse generale alla salvaguardia del matrimonio non consentiva che il vincolo coniugale potesse essere sciolto.
La separazione era unico rimedio al fallimento dell'unine, rimedio che però non consentiva ai coniugi alcuna libertà: il vincolo risultava meramente allentato e permanevano i diritti e i doveri nati dal matrimonio, anche sé modificati o attenuati.
I coniugi potevano inoltre ricorrervi solo in presenza di tassative ipotesi di colpa di uno dei due: ADULTERIO, VOLONTARIO ABBANDONO, ECCESSI, SEVIZIE, MINACCIE,
INGIURIE GRAVI, la separazione era  dunque stato temporaneo orientata al ricongiungimento dei coniugi.
La caduta del principio di indissolubilità con la legge 898/1970 testimonia la mutata concezione di famiglia di cui si è ampiamente parlato in precedenza: diventa formazione sociale tutelata in ragione della protezione delle persone che la compongono. Il venir meno della comunione materiale e spirituale è ciò che giustifica lo scioglimento del vincolo.
Muta quindi anche la funzione della separazione che non sarà più stato temporaneo in vista della riconciliazione ma il momento iniziale di un processo che sfocia ne divorzio; la separazione diventa necessaria anticamera del divorzio anche s non si esclude che coesista una diversa considerazione della separazione come stato durevole alternativo al divorzio, a disposizione di chi non voglia porre definitivamente fine al vincolo.
Il divorzio non è sanzione per le colpe commesse ma rimedio per una situazione definitiva del rapporto; la nuova disciplina della separazione ha coinvolto di riflesso anche l'istituto del divorzio: in un sistema in cui si ammette come causa principale del divorzio la separazione legale protratta per sei mesi o un anno (riforma 2015), l'introduzione della separazione per intollerabilità della convivenza al posto della separazione per colpa ha portato alla semplificazione della via d'accesso al divorzio.
Il sistema italiano si differenzia poiché non è possibile ricorrere al divorzio senza che sussista una precedente separazione legale; la legge 55/2015 riduce il tempo di attesa tra separazione e divorzio ad un anno nel caso di separazione contenziosa e a 6 mesi in caso di separazione consensuale (divorzio breve).
Nella disciplina originale del 1970 la modifica dello status coniugale conseguente alla separazione o al divorzio presuppone un provvedimento del giudice: decreto di omologazione della separazione consensuale o sentenza di separazione giudiziale o di divorzio.



-Le nuove forme di separazione e divorzio previste dalla legge 162/2014


al fine di ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari e favorire una soluzione consensuale del conflitto è stato previsto che la separazione consensuale ed il divorzio possano perfezionarsi in forme semplificate senza necessariamente dover ottenere provvedimento giurisdizionale; si parla di separazione e divorzio rapidi da non confondere con il divorzio breve.
Le forme di separazione consensuale o divorzio congiunto previste dalla nuova disciplina sono due:
1.NEGOZIAZIONE ASSISTITA: per le soluzioni consensuali di separazione personale, cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio;
La negoziazione assistita da avvocati è ammissibile sia per le coppie senza figli che per quelle con figli minori o meritevoli di protezione; l'avvocato deve avvisare le parti della possibilità di esperire la mediazione familiare e deve tentare la conciliazione tra i coniugi. In caso di figli minori deve ricordare alle parti l'importanza relativa al tempo trascorso dagli
stessi con entrambi.
Si prevede l'intervento del PM che nel caso di coppie senza figli eserciterà mera funzione di controllo formale mentre nel caso di coppie con figli minori o meritevoli di protezione deve verificare la rispondenza degli accordi con gli interessi dei figli. Nel caso il controllo dia esito positivo, il PM autorizza l'accorso, in caso contrario è tenuto a trasmettere il fascicolo entro 5 giorni al Presidente del tribunale che fissa entro 30 giorni la comparizione delle parti.
Raggiunto l'accordo, e superato il controllo del PM, l'avvocato deve trasmetterlo entro 10 giorni all'ufficiale di stato civile che ne cura le necessarie annotazioni nei registri.
2.ACCORDO DELLE PARTI DINNANZI ALL'UFFICIALE DI STATO CIVILE: le parti sono invitate dall'ufficiale civile a comparire davanti a lui entro 30 giorni per la conferma dell'accordo; questo modalità è possibie al ricorrere di due condizioni: che la coppia non abbia figli minori o meritevoli di protezione; che l'accordo non contenga patti di trasferimento patrimoniale.


Con la nuova disciplina si attenua il controllo pubblico sulla crisi coniugale ed acquista maggior peso l'accordo tra i coniugi, la loro autonomia nella soluzione del conflitto; la legge segna un passo ulteriore verso la privatizzazione del matrimonio e dei rapporti familiari.




-La separazione personale


La trasformazione dalla separazione per colpa a quella per intollerabilità della convivenza rispecchia la maggiore rilevanza attribuita al consenso nella formazione del matrimonio e nel suo svolgimento; la tutela prevalente attribuita all'effettività del rapporto coniugale rispetto all'atto con il quale è costituito si traduce nel momento della crisi, nella rilevanza
dell'irreversibile venir meno della comunanza di vita ed interessi in cui il matrimonio si sostanzia.
Le colpe dei coniugi, sé sussistenti e riscontrabili restano in secondo piano perché il compito del diritto e del giudice è quello di porre rimedio al fallimento del matrimonio regolandone le conseguenze nell'interesse dei coniugi e dei figli.
La previsione dell'addebito per il coniuge responsabile della violazione dei doveri che nascono dal matrimonio non altera l'istituto; l'addebito non influisce sulla probabilità della separazione ma produce solo la modifica dei suoi effetti patrimoniali e successori; il fondamento della separazione resta comunque il venir meno dell'intesa tra i coniugi.
La separazione ha subito una profonda trasformazione nel suo fondamento, nelle sue finalità, nelle sue cause e nei suoi effetti; si tratta di un processo di trasformazione comunque non giunto al termine.
Per quanto riguarda le orme della separazione, questa può essere giudiziale o consensuale; il diritto di chiedere la separazione giudiziale o l'omologazione di quella giudiziale spetta esclusivamente ai coniugi. La separazione per il solo consenso dei coniugi, priva di omologazione del giudice non ha effetto: la semplice separazione di fatto non può stabilire un regie di vita separata.
Ulteriore forma di separazione si verifica in seguito ai provvedimenti temporanei o provvisori adottati dal presidente del Tribunale in sede di udienza preliminare dei procedimenti di separazione, divorzio e annullamento del matrimonio.
Il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente e prende i provvedimenti relativi ai coniugi ed ai figli: questo tipo di separazione produce alcuni effetti: viene meno la presunzione di paternità del marito; inizia a decorrere il tempo necessario per il divorzio; si verifica scioglimento della comunione legale.
Non può essere però equiparata alla separazione legale: non si può proporre domanda di divorzio perché questa presuppone oltre al decorso del tempo prescritto, anche il passaggio in giudicato della sentenza di separazione.




-La separazione consensuale


Ha la sua fonte nell'accordo tra i coniugi e diventa efficacie con l'omologazione del Tribunale; l'omologazione è momento conclusivo di un procedimento di volontaria giurisdizione e si articola il due fasi:
1.La prima si svolge dinnanzi al presidente del Tribunale che effettua un tentativo di
conciliazione ed, in caso di insuccesso, dispone provvedimenti temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e dei figli.
2.La seconda si svolge davanti al collegio che omologa la separazione rendendola efficace.


Il Tribunale non può sindacare le ragioni per le quali i coniugi ricorrono alla separazione e può rifiutare l'omologazione solo sé gli accordi non tutelano adeguatamente gli interessi dei figli: in questo caso può rifiutare l'omologazione suggerendo le modifiche da apportare e riconvocando i coniugi ad udienza. Il giudice non ha potere di modifica o integrazione dell'accordo che resta il risultato dell'autonomia privata; i suoi poteri sono ancora più limitati rispetto agli accordi relativi ai coniugi sui quali non ha poter di controllo a meno che non ravvisi elementi di illiceità.
L'omologazione costituisce una semplice condizione di efficacia dell'accordo che si è perfezionato al momento della sottoscrizione verbale ha funzione di controllo giustificato dall'esigenza di certezza degli status e tutela preminente degli interessi dei figli.
Il provvedimento giudiziale è condizione per il sorgere dello status di separazione ma non esclude che l'accordo come ogni patto abbia di per sé efficacia vincolante tra le parti.
Si ritiene dunque che una volta formalizzato dall'udienza presidenziale il consenso non sia più revocabile, l'accordo può poi essere impugnato per incapacità, vizi del consenso e simulazione.
Per i patti anteriori o coevi all'omologazione si ritiene che siano validi sé non interferiscono con quelli omologati perché non modificativi nella sostanza dell'equilibrio raggiunto in sede di omologazione; sé sono in contrasto con quelli omologati, sono validi sé assicurano una migliore tutela dei diritti del coniuge e dei figli.
I recenti orientamenti della Suprema Corte riconoscono ampi spazi all'autonomia privata ma permane molta diffidenza nei confronti degli accordi presi in sede di separazione in vista del divorzio; si ritengono nulli per illiceità della causa i patti presi in occasione della separazione e destinati a regolare un futuro ed eventuale divorzio poiché potrebbero mascherare un accordo sullo status.



-La separazione giudiziale per intollerabilità della convivenza


La separazione giudiziale può essere richiesta quando si verificano anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione
della prole; è sufficiente per la pronuncia della separazione il riscontro di circostanze oggettive che incidano negativamente sulla prosecuzione della convivenza.
La separazione si configura come rimedio al fallimento del matrimonio, inteso a porre fine ad una situazione non più sostenibile ed a regolare i modi di svolgimento della vita separata ed i diritti-doveri tra coniugi e nei confronti dei figli.
Le interpretazioni dell'intollerabilità della convivenza sono due:
a)SOGGETTIVA: prevalente in giurisprudenza; attribuisce rilievo al rifiuto di proseguire la convivenza anche sé espresso da un solo coniuge nel presupposto che la convivenza si alimenta nella comune intesa e si regge sulla perdurante adesione al progetto di vita comune.
b)OGGETTIVA: dichiara la necessità del controllo giudiziale sull'obiettiva intollerabilità ed il riscontro di circostanze che rendono oggettivamente apprezzabile l'impossibilità di continuare la vita comune, per evitare che atteggiamenti di mero rifiuto giustifichino un provvedimento grave quale la separazione.



-La separazione con addebito


Quando l'intollerabilità della convivenza è determinata da comportamenti che costituiscono violazione di doveri nascenti dal matrimonio, tenuti consapevolmente dal coniuge, l'altro può chiedere al giudice di addebitare al primo la separazione; l'addebito costituisce sanzione per la violazione dei doveri coniugali
In conseguenza all'addebito il coniuge responsabile perde il diritto al mantenimento conservando solo i diritti agli alimenti; l'addebito non dispiega alcun effetto sui rapporti relativi ai figli.
Si discute sul mantenimento della funzione sanzionatoria della separazione; in realtà la nozione di addebito non può essere assimilata a quella di colpa ed occorre tenere conto che nella nuova disciplina la violazione dei doveri coniugali non è idonea di per sé a giustificare l'addebito ma può esserlo solo qualora tale violazione abbia avuto efficacia determinante della crisi matrimoniale.
L'intollerabilità della convivenza è l'unico ed essenziale fondamento della pronuncia giudiziale, mentre l'addebito si deve considerare oggetto di una pronuncia meramente eventuale e di carattere eccezionale che il giudice emette solo su richiesta ed alla presenza di specifiche circostanze.
Non ogni violazone assume dunque rilevanza, ma solo quelle all'origine della crisi coniugale; deve sussistere rapporto consequenziale tra violazione dei doveri coniugali e
intollerabilità della convivenza: la pronuncia di addebito è ammissibile solo in presenza di violazioni che sono state causa di crisi coniugale.
La prova del nesso causale della violazione della fedeltà non va provata, mentre il coniuge colpevole deve dimostrarne l'insussistenza. Sé il coniuge ha volontariamente abbandonato la residenza coniugale senza proporre domanda di separazione, l'altro ai fini della domanda di addebito non deve provare l'esistenza del nesso causale: l'abbandono pone direttamente fine alla convivenza.
L'addebito non può essere chiesto per comportamenti tenuti successivamente al verificarsi della crisi.
La sentenza parziale di separazione consente alla parte che abbia interesse di chiedere il divorzio, una volta trascorsi 3 anni dall'udienza presidenziale, evitando che il conflitto passi in giudicato e che maturi il presupposto indispensabile per la domanda di divorzio.



-Addebito e responsabilità civile


La tutela risarcitoria non può essere esclusa per principio non solo per i casi in cui l'illecito che commette il coniuge sia lo stesso che potrebbe essere commesso da un terzo, ma anche in quelli in cui i danni derivano dalla violazione dei doveri coniugali di assistenza, collaborazione, cura e rispetto.
Nel caso di violazione dei doveri familiari ad opera del coniuge o del genitore la legge dispone rimedi specifici di natura civile (separazione, divorzio, provvedimenti giudiziali nell'interesse del figlio) e prevede talvolta anche sanzioni di diritto penale.
Si pensa però che si possa ricorrere anche al rimedio risarcitorio quando ricorrano i presupposti: ingiustizia del danno, colpevolezza, danno risarcibile; è necessario dunque oltre alla violazione dei doveri coniugali, il verificarsi di un danno ingiusto cioè la violazione del diritto di una persona di rilevanza costituzionale.
Violazione di diritti fondamentali, gravi mancanze di assistenza, comportamenti violenti o disciminatori, lesioni della dignità; violazione dei doveri verso i figli (rifiuto del riconoscimento del figlio naturale e conseguente totale disinteresse).



-La separazione di fatto


La separazione può essere attuata come mero fatto con la semplice cessazione della vita comune non formalizzata  né con provvedimento giudiziale definitivo, né con
provvedimento temporaneo o provvisorio o con provvedimento di allontanamento emesso  in seguito ad ordine di protezione.
La separazione di fatto dunque si contrappone a quella di diritto; lo stato di vita separata può avere origine da un accordo anche sé non sottoposto al controllo giudiziale, inteso a regolare anche i rapporti patrimoniali tra i coniugi e relativi ai figli. La separazione di fatto può anche derivare dal comportamento di un solo coniuge inequivocabilmente idoneo a dimostrare all'altro la volontà di dissolvere il vincolo coniugale.
La separazione di fatto non produce gli effetti della separazione legale ma non è priva di rilevanza giuridica; è problematico definire come influisca sui rapporti patrimoniali e personali tra i coniugi: sé non produce gli effetti della separazione legale, determina una modificazione dei diritt e doveri coniugali adeguandoli ad una situazione in cui, venuta meno la coabitazione non possono non attenuarsi o modificarsi anche gli altri doveri che si alimentano nella comunione di vita.



-La riconciliazione


Gli effetti della separazione vengono meno con la riconciliazione che può risultare da accordo espresso o da comportamenti non equivoci incompatibili con lo stato di separazione; la riconciliazione presuppone in ogni caso un'intesa tra coniugi ad operare senza bisogno di intervento giudiziale. Può consistere nel mero fatto del ripristino della convivenza come coniugi o in una dichiarazione espressa per cui si possa chiedere annotazione nei registri di stato civile per renderla opponibile a terzi.
La riconciliazione può intervenire in seguito alla separazione consensuale o giudiziale; sé dopo la riconciliazione si perviene a nuova separazione questa dovrà fondarsi su fatti successivi alla riconciliazione e non su fatti anteriori.
La riconciliazione può intervenire durante il procedimento di separazione ed ha come effetto l'abbandono della domanda; la riconciliazione determina il ripristino della vita comune con diritti e doveri personali e patrimoniali caratterizzanti il rapporto coniugale. Nei rapporti patrimoniali la riconciliazione rende efficace l'obbligo di corrispondere l'assegno di separazione, ripristina l'obbligo di contribuzione.
Controversi sono gli effetti della riconciliazione sulla comunione legale: la separazione ne determina lo scioglimento e ci si chiede sé in seguito alla riconciliazione torni automaticamente in vita il regime di comunione; opinione prevalente è quella che ritiene che tra i coniugi si ripristini ex nunc il regime legale senza necessità di dichiarazione o convenzione.



-Gli ordini di protezione


Con la legge 154/2001 il legislatore introduce nel codice civile, di procedura civile e penale nuove norme contro la violenza in famiglia; si è pensato di introdurre un rimedio più efficace, di natura sostanzialmente cautelare per limitare i danni della violenza impedendo al responsabile di poter nuocere ancora.
L'efficacia degli ordini di protezione è data dalla loro tempestività; gli ordini di protezione possono essere disposti dal giudice penale o dal giudice civile: in presenza di condotta violenta il giudice può disporre l'allontanamento del responsabile dalla casa familiare e dare altri opportuni provvedimenti.
In sede civile la disciplina si coordina con quella in materia di separazione e divorzio e con quella dei rimedi alla condotta pregiudizievole dei genitori verso i figli.
L'ordine di protezione può essere emesso quando la condotta del coniuge o di altro
convivente causi grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente.
Presupposto oggettivo è il grave pregiudizio arrecato alla personalità fisica e morale, alla libertà dell'altro; presupposto soggettivo è che le parti siano componenti della stessa famiglia, coniugi o conviventi.
Competente è il Tribunale in composizione monocratica e sé è in corso un procedimento per separazione, il giudice della separazione.
Il giudice su ricorso della vittima dispone l'ordine di protezione; questo consiste nell'ordine impartito all'abusante di cessare la condotta pregiudizievole ed allontanarsi dalla casa familiare; nel caso in cui per effetto dell'allontanamento la vittima o i figli restino privi di mezzi di sostentamento adeguati, il giudice può disporre il versamento di un assegno periodico da parte dell'abusante.
Con l'ordine di protezione il giudice può anche disporre l'intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione; l'ordine di protezione ha durata limitata nel tempo: al massimo 1 anno eventualmente rinnovabile solo per il tempo strettamente necessario ed in presenza di gravi motivi.
La violazione dell'ordine di protezione è punita con multa o con la reclusione fino a 3 anni. Nel caso in cui vittime dell'abuso siano figli minori si ha un problema di coordinamento con gli articoli 330 e 333 cc che dispongono il potere per il Tribunale dei minorenni di adottare tutti i provvedimenti opportuni in presenza di condotte pregiudizievoli dei genitori. La
competenza del Tribunale minorile riguarda i soli comportamenti dei genitori; restano fuori le condotte di abuso tenute da altri familiari.
Problemi sorgono nei casi di abusi indiretti subiti dal minore, dato che l'abuso compiuto, ad esempio, sulla madre o su altri congiunti può costituire ad un tempo abuso nei confronti del bambino che vi assista o che ne subisca le conseguenze negative.
Questi abusi legittimano l'immediato allontanamento dell'abusante, ma non sono chiari i confini tra competenza del Tribunale ordinario e di quello minorile.



-Il divorzio
-Il divorzio in generale


l divorzio è introdotto dalla legge89871079 ed è uno dei momenti maggiormente caratterizzanti l'evoluzione del diritto di famiglia; tale legge costituisce il primo grande cambiamento in un diritto di famiglia ancora sostanzialmente immutato e dà il via al processo di privatizzazione del diritto di famiglia.
La facoltà riconosciuta dalla legge, di liberarsi da un vincolo non più alimentato dalla comunione materiale e spirituale dimostra la mutata concezione di famiglia; non vale più l'interesse pubblico all'unità della famiglia ma il diritto si limita a verificare la irrimediabilità della frattura ed a disciplinarne le conseguenze nel segno della responsabilità individuale e della solidarietà di gruppo.
Sostituita l'elencazione tassativa delle colpe dalla clausola generale dell'intollerabilità della convivenza la separazione ed il divorzio non hanno altro fondamento che non sia il venir meno dell'intesa materiale e spirituale in cui si sostanzia l'unione coniugale.
Il modello di divorzio accolto dalla legge del 1970 è quello del divorzio rimedio ed il suo fondamento è la venuta meno della comunione materiale e spirituale; anche la separazione consensuale non conduce automaticamente al divorzio sé non in seguito al passaggio di un periodo di tempo ora ridotto a sei mesi, che documenti la irreversibilità della rottura.
Anche il divorzio congiunto non può intendersi come forma di divorzio consensuale: la presentazione di una domanda congiunta semplifica la procedura e ne riduce i tempi, ma non esonera il giudice dal compiere la verifica dell'irreversibilità della rottura che deriva da una separazione ininterrotta per il periodo prescritto dalla legge; non si attribuisce dunque rilievo al consenso in quanto tale ma in quanto elemento che, con il ricorrere dei presupposti di legge, giustifica il fatto che il diritto ceda nella tutela della stabilità di un vincolo del quale entrambi i coniugi vogliono liberarsi.
La legge in questione all'articolo 1 individua il fondamento del divorzio nel fatto che la
comunione materiale e spirituale dei coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, ma precisa che tale possibilità deve manifestarsi attraverso le circostanze indicate come causa del divorzio all'articolo 3. Si ha quindi elencazione tassativa di circostanze eterogenee che nella realtà non sono concretamente tassative: la separazione protratta per il periodo prescritto risulta la causa preponderante del divorzio diventando immediatamente rilevante il fallimento irrimediabile dell'unione.
La legge è stata modificata dalle leggi 436/1978 e 74/1987 che hanno valorizzato i profili di autonomia e di libertà dei coniugi (riduzione tempi necessari per ottenere il divorzio, divorzio congiunto) e nello stesso tempo accentuare quelli di responsabilità nei confronti del coniuge debole e dei figli (modifiche della disciplina degli effetti patrimoniali del divorzio, affidamento congiunto).
La legge 162/2014 ha introdotto nuove forme di divorzio rapido mediante negoziazione assistita da avvocati o di accordo raggiunto davanti all'ufficiale di stato civile; il Parlamento ha approvato la legge 55/2015 che riduce i tempi di attesa tra separazione e divorzio ad 1 anno per la separazione giudiziale e 6 mesi per quella consensuale.
Si avverte la necessità di una organica revisione della disciplina di divorzio partendo dalla sua sistemazione nel codice civile per giungere ad un migliore coordinamento tra i diversi rimedi della crisi familiare.




-Le cause di divorzio


L'articolo 3 della legge 898/1970 contiene un elenco tassativo delle cause di divorzio:
1.SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI: è la causa di divorzio  più importante e ricorrente nella prassi; riguarda sia quella consensuale (protrarsi della separazione per 6 mesi), sia quella giudiziale (protrarsi per 1 anno) dalla data di comparizione dei coniugi dinnanzi al Presidente del Tribunale.
Si deve trattare di separazione legale perché la separazione di fatto nn è considerata rilevante.
Idonee a costituire presupposti per il divorzio sono la separazione provvisoria disposta dal Tribunale nell'udienza presidenziale di separazione e la separazione temporanea disposta in sede di annullamento del matrimonio.
Si deve trattare di separazione ininterrotta dal momento dell'udienza di comparizione innanzi al Presidente del Tribunale nel giudizio di separazione.
Nel caso di trasformazione da separazione contenziosa a consensuale, il periodo decorre
dall'ultima udienza presidenziale.
Nel caso di separazione giudiziale la sentenza di separazione deve essere passata in giudicato.
2.FATTOCHEL'ALTROCONIUGECITTADINOSTRANIERO ABBIA
OTTENUTO ALL'ESTERO L'ANNULLAMENTO O SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO O ABBIA CONTRATTO  NUOVO MATRIMONIO: quando il
coniuge straniero abbia ottenuto all'estero l'annullamento o scioglimento del matrimonio il cittadino italiano ha a disposizione due rimedi: la domanda di divorzio ed il riconoscimento della sentenza straniera di divorzio. Le sentenze straniere oggi sono immediatamente esecutive nell'ordinamento senza necessaria delibazione da parte della Corte d'appello quando soddisfino i requisiti di legge (sé non produttive di effetti contrari all'ordine pubblico, non contrarie ad altra sentenza passata in giudicato pronunciata da giudice italiano, sé non pende un processo dinnanzi a giudice italiano con lo stesso oggetto e stesse parti che sia iniziato prima di quello straniero).
3.INCONSUMAZIONE DEL MATRIMONIO: ha l'intento di non creare disparità di trattamento tra cittadini sposati con rito civile e con rito concordatario; può concorrere con la domanda si annullamento per simulazione consentendo lo scioglimento del vincolo anche decorsi i tempi per proporre l'azione di nullità.
4.MUTAMENTO DI SESSO: è causa di divorzio il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
NB: vi sono anche cause penali di divorzio; la disciplina è disorganica che si dipana tra gli articoli 1 e 3.
All'articolo 3.1 sono previste cause di divorzio riconducibili a fondamenti diversi: alcune collegate alla condanna del coniuge successiva al matrimonio anche sé prnunciata per reati anteriori, ad una pena piuttosto lunga purché non si tratti di reati colposi, politici o commessi per motivi di particolare valore morale o sociale; altre rilevano, indipendentemente dalla durata della pena, per il tipo di reato che suscita allarme sociale o appare incompatibile con la comunione della vita.
Altre cause di ricollegano a reati che rilevano solo sé compiuti in danno al coniuge o al figlio, o che comportano condanne per lesioni gravissime, violazione degli obblighi di assistenza familiare, maltrattamenti in famiglia o circonvenzione di incapace commessi in danno del coniuge o di un figlio.
Tratto comune delle cause penali di divorzio è l'idoneità a frantumare la vita coniugale: è questa che consente di accomunare tutte le figure.
In presenza delle condizioni indicate dalla legge al coniuge incolpevole è riconosciuto il
diritto a sciogliersi da un vincolo che l'altro ha compromesso irrimediabilmente; il divorzio viene guardato come una forma di tutela per il coniuge incolpevole.
CAPITOLO 7: NULLITÀ SEPARAZIONE E DIVORZIO. GLI EFFETTI


-Premessa


Nullità separazione e divorzio costituiscono le risposte che l'ordinamento offre alla crisi del rapporto coniugale; sono diversi per struttura e presupposti pur condividendo la stessa funzione di rimedi al fallimento del matrimonio seppur producano effetti diversi.
La differenza più marcata riguarda gli effetti dell'invalidità: nel caso di divorzio o separazione il coniuge debole ha diritto ad un assegno perpetuo che tende a garantirgli lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; nel caso dell'invalidità invece, il coniuge in buona fede ha solo diritto all'assegno di mantenimento temporaneo previsto dall'articolo 129 cc o all'indennità di cui all'articolo 129 bis cc.
Anche la separazione ed il divorzio producono effetti diversi: questo trova giustificazione nel fatto che il divorzio scioglie il vincolo coniugale; l'elemento che accomuna gli istituti invece resta quello relativo al fatto che sia con la separazione che con il divorzio viene meno la vita comune e dunque si rende necessaria la regolamentazione dei rapporti successivi alla fine della convivenza.
Nel nostro ordinamento, separazione e divorzio trovano la loro regolamentazione in testi normativi diversi (codice civile e legge 898/1970) e sono soggetti a regole formalmente distinte.
L'evoluzione degli istituti però ha portato al loro avvicinamento, per quanto riguarda i coniugi, restano le differenze in relazione agli effetti personali ed ai criteri di determinazione degli assegni.
Per quello che concerne i rapporti con i figl, con la riforma della filiazione (l 219/2012 e d. Lgs 154/2013) si prevede una disciplina unitaria dell'esercizio della potestà genitoriale in seguito alla separazione, al divorzio e all'annullamento del matrimonio e procedimenti che interessano i figli nati da genitori non coniugati.
La disciplina si colloca nell'ambito relativo alla responsabilità dei genitori e costituisce il nuovo Capitolo II del titolo IX.




-Gli effetti personali della separazione e del divorzio
In seguito alla separazione si producono rilevanti effetti nella sfera personale dei coniugi, si realizza infatti una modifica dei reciproci diritti e doveri:
a)viene meno l'obbligo di coabitazione;
b)gli obblighi di fedeltà e di assistenza morale e materiale si affievoliscono per ridursi poi a generico dovere di rispetto reciproco
c)l'obbligo di contribuzione è sostituito da quello di mantenimento nei confronti del coniuge che non dispone di adeguate risorse economiche;
d)l'obbligo di collaborazione è limitata all'adempimento dei doveri nei confronti dei figli.


Nella disciplina dei rapporti successivi alla separazione, l'articolo 156 cc considera solo i residui obblighi a contenuto economico.
I coniugi separati però sono ancora coniugi e quindi si ha la permanenza dei diritti successori ed il fatto che continui a sussistere il vincolo di affinità con i parenti dell'altro; la moglie separata continua a portare il cognome del marito.
Con il divorzio invece si estingue lo status coniugale e viene meno ogni posizione attiva o passiva da esso dipendente; si può quindi nuovamente contrarre matrimonio salvo il rispetto da parte della donna del divieto temporaneo di nuove nozze.
La pronuncia di divorzio, sé interviene prima dei termini richiesti dalla legge per l'acquisto della cittadinanza del coniuge straniero, impedisce l'acquisto della stessa mentre una volta acquistata per effetto del matrimonio, non si perde a causa dell'eventuale divorzio.
NB: gli effetti della separazione e del divorzio si producono dal passaggi in giudicato della relativa sentenza o, in caso di separazione consensuale, dal decreto di omologazione; il decreto del Tribunale e le sentenze di separazione e divorzio passate in giudicato devono essere annotati nei registri dello stato civile.
Tra le parti gli effetti della separazione e del divorzio decorrono dalla pronuncia giudiziale, mentre l'annotazione rileva nei rapporti con i terzi; l'annotazione della sentenza di divorzio è condizione perché il coniuge divorziato possa contrarre nuove nozze.
Nel caso di separazione o divorzio con procedura di negoziazione assistita o mediante accordo con l'ufficiale di stato civile gli effetti decorrono dall'accordo e dalla relativa annotazione nei registri di stato civile.



-L'affidamento dei figli
gli effetti della crisi coniugale nei confronti dei figli sono contenuti nell'articolo 337 bis e seguenti del codice civile che contengono una disciplina unitaria per i casi di separazione, divorzio ed annullamento del matrimonio e procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; prima della riforma della filiazione la disciplina dei rapporti tra genitori e figli era contenuta in disposizioni distinte per le ipotesi di divorzio e separazione, ipotesi accomunate dalla stessa logica ma con importanti differenze testuali. Prima della formalizzazione della disciplina comune, dottrina e giurisprudenza hanno provveduto all'armonizzazione di dette disposizioni in vista del perseguimento dell'interesse preminente del figlio.
In sede di separazione o divorzio, i figli sono affidai ai genitori; l'affidamento a parenti, comunità o l'affidamento familiare a terzi costituiscono modalità residuali ammissibili solo sé entrambi i genitori si trovano nell'impossibilità di prendersi personalmente cura dei figli. Il verificarsi della crisi coniugale non modifica il contenuto degli obblighi di istruzione, educazione e mantenimento cui i genitori sono tenuti nei confronti dei figli ma richiede diverse modalità di attuazione in conseguenza alle nuove condizioni di vita separata; da qui la necessità di procedere in ordine all'affidamento dei figli e stabilire le modalità di esercizio dei diritti e dei doveri dei genitori.
In sede di separazione consensuale sono i genitori che decidono tali modalità nell'accordo che verrà sottoposto all'omologazione del giudice; il giudice può rifiutare l'omologazione sé l'accordo non soddisfa pienamente gli interessi dei figli, ma non può modificarlo.
In sede di divorzio congiunto devono essere indicate le condizioni inerenti la prole oltre ai rapporti economici.
L'accordo tra i coniugi non è rilevante in sede contenziosa; sarà la mediazione familiare a porre rimedio al conflitto con l'intento di trovare un accordo possibile, partendo dall'assunto che gli ex coniugi non possono essere considerati ex genitori e che la responsabilità verso i figli permane piena in entrambi anche quando la vita di coppia si spezza.
Il giudice che lo ritenga opportuno può sospendere l'adozione di provvedimenti nell'interesse dei figli per consentire ai coniugi di fare un tentativo di mediazione per raggiungere un accordo nell'interesse dei figli.




-Le modalità di affidamento secondo il modello tradizionale


Le modalità di affidamento sono state modificate profondamente dalle riforme del 2006 e del 2012; in passato affidataria era quasi sempre la madre, ritenuta più idonea e disponibile
ad occuparsi del figlio. La giurisprudenza aveva individuato poi alcuni criteri guida nella scelta del genitore affidatario: si escludeva che il genitore cui fosse addebitata la separazione venisse escluso dall'affidamento, così come il genitore non colpevole che si fosse costituito una nuova famiglia; anche la discutibile condotta morale del genitore non si riteneva idonea a giustificare l'esclusione.
Secondo il modello tradizionale, il genitore affidatario si occupava del figlio mentre l'altro poteva frequentarlo in giorni prefissati e negli orari di visita stabiliti dal giudice, contribuire a prendere le decisioni più importanti e vigilare sull'operato dell'altro ricorrendo eventualmente al giudice nel caso di possibile pregiudizio per il figlio.
Il provvedimento giudiziale doveva indicare i diritti competenti l'altro genitore, la frequenza degli incontri, la misura del suo contributo al mantenimento del figlio; doveva poi regolare il diritto di visita. Risultato era una netta differenziazione, un'asimmetria nei ruoli dei due genitori nella loro presenza accanto al figlio.


Il primo cambiamento interviene con la riforma del divorzio del 1987 che ha previsto la modalità dell'affidamento congiunto: questo intende realizzare il diritto del figlio ad intrattenere relazioni personali e contatti diretti con i due genitori; questa modalità di affidamento è munita di particolari cautele.
La giurisprudenza l'ha utilizzata dimostrando di farvi riferimento solo in presenza di circostanze di fatto idonee a facilitare l'esercizio congiunto della potestà da parte dei genitori non più conviventi.


Con l'entrata in vigore della legge 54/2006 il quadro muta completamente: l'affidamento condiviso diventa la normale modalità di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli alla fine della convivenza, mentre l'affidamento esclusivo costituisce ipotesi residuale prevista nel caso in cui l'eventuale affidamento all'altro genitore recherebbe pregiudizio al figlio.
Si vuole evitare che il fallimento dell'unione tra coniugi determini anche una modifica consistente dei rapporti con il figlio: la responsabilità di entrambi i genitori sopravvive al fallimento del matrimonio mettendo il luce l'unico rapporto destinato a durare per sempre.
IL baricentro dell'unità della famiglia si sposta dunque dal rapporto di coppi a quello con il figlio; l'attenzione si sposta dal matrimonio alla filiazione. Si attua un processo di separazione tra filiazione e matrimonio che si sviluppa con la legge219/2012 sull'unicità dello status di figlio.
-L'affido condiviso. I principi


La nuova disciplina riguarda la responsabilità dei genitori, l'obbligo di mantenimento, l'assegnazione della casa familiare e si applica nei casi in cui cessa la convivenza tra i genitori coniugati e non coniugati; in attuazione del principio di unicità dello status di figlio, è previsto trattamento uniforme dei figli nati nel e fuori del matrimonio in occasione della crisi tra genitori.
Le principali innovazioni rispetto alla riforma del 1975 sono:
•La nuova disciplina vuole attuare il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ricevendo da entrambi istruzione ed educazione;
•la legge non si limita a garantire il rapporto con ciascun genitore ma tutela anche
quello con i nonni e altri parenti, intendendo proteggere le relazioni significative per la formazione della personalità minorile;
•la legge pone l'interesse del figlio come criterio guida per prendere le decisioni che lo
riguardano e prevede l'ascolto come strumento processuale per attuarlo;
•viene prevista la possibilità per il giudice di predisporre provvedimenti di mediazione familiare;
•per quanto riguarda il mantenimento si predilige il mantenimento diretto, mentre
l'assegno ha funzione di riequilibrio a favore del genitore convivente a carico del quale si hanno maggiori oneri e spese;
•viene disciplinata la condizione del figlio maggiorenne non economicamente
sufficiente o portatore di handicap;
•si prevedono sanzioni per il genitore che non adempia ai provvedimenti del giudice o che ostacoli la relazione tra il figlio e l'altro genitore.




-Affidamento condiviso ed esercizio della responsabilità dei genitori


L'affidamento condiviso è modalità normale di regolamentazione tra i figli ed i genitori separati;si ritiene infatti che sia l'unica a garantire al figlio il dritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, ricevendo da essi cura, istruzione ed educazione. L'affidamento congiunto è dunque la regola mentre quello monogenitoriale può essere concesso dal giudice in via d'eccezione con provvedimento motivato solo qualora
ritenga che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore.
Mentre nella precedente disciplina l'affidamento congiunto costituiva l'eccezione cui si faceva riferimento solo in presenza di precise circostanze di fatto, ora costituisce la modalità normale di affidamento.
Vuole essere un modo per assicurare la presenza di entrambi i genitori nello sviluppo educativo dei figli e conservare i rapporti del figlio con entrambi; è la modalità standard di regolamentazione del rapporto genitori e figlio successivamente alla crisi tra i genitori. Possono essere rilevanti i cattivi rapporti tra il genitore ed il figlio ed il rifiuto del genitore da parte del figlio, nel caso in cui la situazione determini un concreto pregiudizio per il figlio.
Quello dell'affidamento congiunto non è modello uniforme ma va disegnato in relazione alla situazione concreta, all'età, alla personalità del figlio ed al tipo di relazioni esistenti con i genitori; i poteri di discrezione del giudice devono essere esercitati in relazione agli elementi fattuali rappresentati in giudizio, anche attraverso l'ascolto del minore per adottare le modalità di frequentazione che meglio soddisfino le esigenze del figlio.
L'affidamento condiviso consiste nella condivisione della responsabilità verso i figli da parte di entrambi i genitori separati e vuole preservare la relazione tra genitore e figlio in termini di intimità, confidenza, accoglienza, dialogo, rispetto reciproco; l'idea di fondo è quella che la separazione dei genitori non spezza la comunione di vita tra figli e genitori né scioglie la responsabilità genitoriale nel processo formativo dei figli.


Nel caso di affidamento condiviso, la responsabilità è esercitata da entrambi i coniugi che prendono di comune accordo le decisioni relative all'istruzione dei figli, alla loro educazione, salute e residenza; la legge precisa che solo per le questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente; con ordinaria amministrazione ci si riferisce alle decisioni che riguardano la vita quotidiana.
L'affidamento esclusivo è ipotesi residuale che il giudice può adottare solo in presenza di circostanze che facciano emergere un pregiudizio concreto per l'interesse del figlio, pregiudizio che può derivare dalla personalità dell'altro coniuge, dal disinteresse manifestato verso il figlio, dal rifiuto espresso dal figlio verso il genitore o da circostanze oggettive come la malattia o la reclusione che impediscono l'esercizio delle responsabilità genitoriali. Salva una disposizione diversa del giudice, il genitore cui è affidato il figlio in via esclusiva ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale; le decisioni di maggiore interesse devono comunque essere adottate da entrambi i genitori. Il genitore non affidatario ha comunque potere-dovere di vigilanza sull'istruzione ed educazione dei figli e può ricorrere
al giudice nel caso vengano prese decisioni pregiudizievoli rispetto all'interesse del figlio.





-la crisi della coppia di fatto


La nuova disciplina in tema di affidamento condiviso si applica anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati: nel caso di separazione di genitori non coniugati, le questioni relative all'affidamento dei figli seguono le regole analizzate.
La legge 54/2006 non affrontava il problema relativo al giudice competente per l'emissione dei provvedimenti relativi ai figli in occasione della crisi della coppia non coniugata; la legge 219/2012 intende rendere la condizione giuridica dei figli indipendente rispetto al matrimonio dei genitori.
Questo principio ha portato all'affermazione del principio di competenza del Tribunale ordinario ad emettere i provvedimenti relativi ai figli anche nel caso di separazione di genitori non coniugati.




-Sanzioni e risarcimento del danno


L'articolo 2 della legge 54/2006 aggiunge al cpc un nuovo articolo 790 ter nel quale è stabilita la competenza del giudice del procedimento in corso per la soluzione delle controversie insorte tra genitori in ordine all'esercizio della potestà o alle modalità dell'affidamento; è poi stabilita la competenza del Tribunale del luogo di residenza del minore per la modifica delle condizioni di separazione.
Il giudice adito deve adottare i provvedimenti opportuni e in caso di gravi inadempienze o atti cherechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento può ammonire il genitore inadempiente, condannarlo a sanzione amministrativa e disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori nei confronti del minore e/o il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori, a favore dell'altro.
La possibilità di richiesta del risarcimento danni nei procedimenti di formalizzazione della crisi è prevista non per tutti i danni derivanti dalla violazione di doveri familiari, ma solo per quelli derivanti da gravi inadempienze o atti che comportino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, siano essi subiti direttamente dal minore o dall'altro genitore.
Si introduce una duplice limitazione: per i danni subiti dai figli deve trattarsi di danni subiti da figli minori; inadempienze e pregiudizi subiti dai figli maggiorenni non possono essere fatti valere. Deve trattarsi poi di danni verificatisi nel corso del procedimento di separazione; per quel che riguarda i danni subiti dal coniuge, deve trattarsi di danni incidenti sulla relazione genitore e figlio, principalmente derivanti da condotte volte ad ostacolare la relazione con l'altro genitore.




-L'audizione del minore


Costituisce strumento processuale utile al giudice per prendere i provvedimenti idonei a rispettare nel miglior modo possibile l'interesse del minore.
La nuova disciplina lo prevede come adempimento istruttorio che il giudice deve compiere sé il figlio ha compiuto 12 anni o anche prima sé capace di discernimento; l'ascolto del minore vuole consentire al figlio una rappresentazione del proprio vissuto e di fornire elementi di apprezzamento dei suoi bisogni ed interessi.
Il minore non è parte del processo di separazione né si prevede la nomina di un curatore speciale che dia rappresentanza ai suoi interessi nel processo.
Il giudice può omettere l'ascolto nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto dell'accordo tra i genitori quando l'ascolto risulti contrario all'interesse del minore o superfluo; si deve tener conto che l'intervento personale del minore nel processo di separazione dei suoi genitori è particolarmente delicato per il rischio che il bambino si senta costretto a schierarsi a favore dell'uno e contro l'altro e finisca per sentirsi responsabile del conflitto.




-L'assegnazione della casa familiare
-Ratio e funzione


La disciplina relativa all'assegnazione della casa familiare, prima contenuta negli artt 155 cc V e VI del codice civile e 6 della legge 898/1970 è ora racchiusa nell'articolo 337 sexies cc che contiene le prescrizioni in tema di residenza.
L nuova disposizione si applica ai procedimenti di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento del matrimonio ed in quelli relativi ai figli di genitori non
coniugati; la legge dispone dunque regole uniformi che valgono in ogni caso in cui la convivenza familiare venga meno.
Il diritto all'abitazione della casa familiare si ricollega direttamente al diritto costituzionalmente garantito al figlio all'articolo 30 della Costituzione: la ratio consiste nella tutela del diritto dei figli alla conservazione dell'habitat domestico considerato come centro di affetti, interessi e consuetudini di vita; ha valenza di natura personalistica prima che economica.
Le modifiche introdotte dalla nuova disciplina non alterano la funzione ma riguardano i presupposti dell'assegnazione, la valenza economica del provvedimento,l'opponibilità ai terzi e l'estinzione del diritto, discostandosi dalla precedente.
Secondo l'articolo 155 previgente l'abitazione familiare spettava di preferenza, o ove possibile, al coniuge cui sono affidati i figli; analogamente l'articolo 6 della legge sul divorzio disponeva che l'abitazione della casa familiare spettava di preferenza al genitore cui veniva fatto l'affidamento o con il quale i figli continuavano a vivere dopo il compimento della maggiore età.
NB: secondo il nuovo articolo 337 sexies il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli; si parla di godimento e non di diritto all'abitazione riferendosi ai figli in generale e introducendo un nuovo criterio di attribuzione basato non sull'affidamento o sulla convivenza ma sulla prioritaria considerazione dell'interesse dei figli.
Vengono poi espressamente disciplinate ipotesi di cessazione o revoca dell'assegnazione ed infine viene modificato il regime di opponibilità a terzi: il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili ed opponibili ai terzi ai sensi dell'articolo 2643 cc.
L'assegnazione della casa familiare è prevista per la prima volta con la riforma del diritto di famiglia del 1975 ma non riguardava i casi di divorzio; nel 1987 il legislatore ha previsto l'assegnazione anche per il divorzio, non estendendo la medesima disciplina prevista per la separazione ma introducendo solo alcune innovazioni significative: considerazione delle esigenze di tutela dei figli minori ma anche di quelle dei figli maggiorenni; introduzione di nuove condizioni per l'assegnazione: il giudice deve in ogni caso tener conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole; si rende opponibile a terzi il provvedimento di assegnazione.



-I presupposti


Si pensa che il diritto all'assegnazione della casa familiare spetti al coniuge affidatario dei
figli, nell'assunto che la finalità perseguita è la tutela del prevalente interesse dei figli alla conservazione dell'ambiente domestico, delle consuetudini di vira e delle relazioni sociali che si radicano.
La Corte di Cassazione a sezioni unite ha accolto questo orientamento stabilendo il principio secondo cui l'assegnazione va intesa come strumento di protezione degli interessi dei figli e quindi può essere disposta solo a favore del genitore affidatario dei figli minori o con il quale convivono i figli maggiorenni, non autosufficienti.
Opinione minoritaria ritiene invece che, pur in assenza di figli, l'assegnazione potrebbe essere giustificata dall'urgenza di protezione del coniuge debole tenuto conto del valore affettivo che si può attribuire alla casa, del bisogno di sicurezza e stabilità nel momento in cui si deve organizzare una nuova vita.
La formulazione dell'articolo 337 sexies nel punto in cui considera prevalente l'interesse del figlio, consente di configurare lo stesso come criterio preferenziale ma non esclusivo, infatti il giudice potrebbe valorizza anche altri criteri.
In senso contrario si ritiene che la legge confermi i principi ormai accolti dalla giurisprudenza secondo i quali solo la presenza di figli conviventi giustifica l'assegnazione. La Corte di Cassazione conferma che l'assegnazione si effettua solo in presenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti; in mancanza di figli il giudice non può adottare provvedimento di assegnazione, quale che sia il titolo di godimento dell'immobile.
Assegnatario non è il figlio ma il genitore; inoltre si prevede la revoca nel casi in cui l'assegnatario non abiti, cessi di abitare, conviva more uxorio o contragga nuove nozze; circostanze che si riferiscono solo all'ex coniuge.
Anche sé la formulazione del nuovo articolo 337 sexies non considera espressamente i figli maggiorenni, non vi sono dubbi sul fatto che gli obblighi dei genitori verso i figli non cessino al compimento della maggiore età.
La ratio dell'assegnazione è quindi quella dell'esigenza di conservazione dell'habitat domestico, centro di affetti, interessi e consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare; casa familiare è dunque il luogo dove la vita familiare si svolge.
Non sono oggetto di assegnazione le case estive, di villeggiatura o l'abitazione adoperata dal coniuge separato dopo la cessazione della convivenza.
L'assegnazione comprende mobili, arredi, elettrodomestici e servizi con l'unica eccezione relativa ai beni strettamente personali o che soddisfino esigenze particolari del coniuge privato del godimento.
-Natura del diritto e opponibilità a terzi


Il diritto che spetta all'assegnatario è diritto di godimento atipico opponibile ai terzi; per la qualificazione del diritto è decisivo l'articolo 6 cc VI della legge sul divorzio che prevede l'opponiblità al terzo dell'assegnazione trascritta. La Corte Costituzionale ha poi affermato l'opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione fatto in sede di separazione.
L'articolo lascia sussistere dubbi sulle condizioni ed i limiti dell'opponibilità a terzi: da un lato indica la trascrizione quale condizione per l'opponibilità, dall'altro rinvia alla disciplina delle locazioni che ammette l'opponibilità (entro 9 anni) anche senza trascrizione.
La Corte di cassazione ha stabilito che l'articolo 6 cc VI della legge debba essere letto nel senso che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, anche sé non ancora trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione ovvero , solo ove il titolo sia stato trascritto, oltre i nove anni.
Innovandola rispetto alla disciplina precedente, la legge 54/2006 e l'articolo 337 sexies ora, prevedono che i provvedimenti di assegnazione e revoca siano opponibili ai terzi ai sensi dell'articolo 2643.


-Il titolo di godimento: locazione, comodato, proprietà esclusiva o comune


L'ammissibilità dell'assegnazione e l'ampiezza dei diritti che spettano all'assegnatario dipendono anche dal titolo in base al quale i coniugi avevano la disponibilità dell'alloggio; nel caso in cui fosse condotto in locazione è espressamente previsto il meccanismo della successione nel contratto di locazione. Il coniuge assegnatario così succede all'altro nel contratto di locazione in qualità di conduttore, diventando titolare dei relativi diritti e dell'obbligazione al pagamento dei canoni.
Sé l'immobile è di proprietà esclusiva dell'altro coniuge, l'assegnazione si traduce in un risparmio di spesa da considerare nell'assegno di mantenimento.
L'assegnazione può anche riguardare un immobile di proprietà comune e si ritiene che l'assegnazione non precluda la possibilità di chiedere la divisione.
Accade poi che i coniugi utilizzino la casa di abitazione di proprietà dei genitori di uno di essi a titolo di comodato: anche in questo caso il provvedimento di assegnazione è ammissibile a patto che non modifichi la natura né il titolo di godimento sull'immobile né tanto meno la sua durata.
Alcuni problemi si prospettano per quanto riguarda la disciplina del recesso del comodante sé non è stato fissato un termine finale; la Corte di cassazione ha stabilito che quando
l'originario contratto di comodato abbia previsto la destinazione dell'immobile ad uso abitativo, il comodante può chiederne la restituzione solo al termine dell'uso convenuto, salvo il caso in cui sopraggiunga un imprevisto bisogno del comodante.




-Estinzione del diritto


Il diritto di abitazione si estingue quando viene meno il presupposto che ha determinato l'assegnazione (morte dell'assegnatario, compimento della maggiore età dei figlio conseguimento dell'indipendenza economica, trasferimento della loro abitazione); l'articolo 337 sexies prevede la revoca dell'assegnazione per il passaggio a nuove nozze e/o la convivenza more uxorio del genitore assegnatario, anche per il caso in cui l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare.
Non è prevista l'estinzione per decorso del termine; in mancanza di una previsione espressa pare che l'apposizione di un termine finale possa essere stabilita anche a posteriori, in sede di revisione del provvedimenti per il sopravvenire di nuove circostanze che portano ad una diversa valutazione dell'interesse del coniuge e dei figli.
La naturale temporaneità del diritto all'assegnazione può essere superata solo in presenza di ragioni particolarmente gravi come la totale invalidità del figlio maggiorenne che può giustificare la durata indefinita dell'assegnazione.
Salvo per la morte del titolare, per la revoca dell'assegnazione è necessario il provvedimento del giudice che, anche nel caso di mancata utilizzazione da parte dell'assegnatario, deve tener conto delle ragioni ostative all'uso (ragioni di salute, lavoro necessità di assistenza del congiunti).
La nuova disciplina contempla espressamente cause di estinzione del diritto per:
1.Mancato utilizzo dell'abitazione;
2.Convivenza more uxorio;
3.Nuove nozze del genitore assegnatario.
Le circostanze indicate sono elementi della valutazione affidata al giudice; la discrezionalità del giudice può confrontare l'interesse del genitore a rientrare in possesso dell'abitazione nella quale vivono persone ormai a lui estranee, con l'interesse del figlio a continuare a stare nella casa familiare. Andrà anche decisa la ripartizione tra i genitori, del maggior onere economico derivante dalla necessità di reperire un nuovo alloggio adeguato alle esigenze del figlio.
-L'assegno a favore del coniuge e dei figli


Il coniuge separato o divorziato, non in grado di provvedere adeguatamente alle proprie esigenze di vita, ha diritto ad un assegno a carico dell'altro; il giudice dispone poi un assegno a favore dei figli.
L'assegno di separazione decorre dalla domanda giudiziale al pari di ogni assegno di natura alimentare; l'assegno di divorzio invece dal passaggio in giudicato della sentenza, essendo dovuto come conseguenza della modifica dello status; il giudice può stabilire il decorso dalla domanda.
Gli assegni di separazione e divorzio assolvono la funzione di provvedere ai bisogni della vita del coniuge economicamente più debole; ad essi è riconosciuta funzione assistenziale.
La Corte di cassazione esclude il carattere alimentare dell'assegno per evitare che vi si possa applicare il principio della compensazione legale; si applicano però tutte le regole ed i mezzi di tutela propri delle obbligazioni alimentari: indisponibilità, imprescrittibilità, impignorabilità.
La giurisprudenza sottolinea il fatto che le differenze tra l'assegno di separazione e quello di divorzio derivano dal fatto che quello di separazione è dovuto tra persone ancora coniugi, quello di divorzio è riflesso patrimoniale di uno status ormai estinto; esistono tuttavia regole comuni in materia di adeguamento automatico e garanzie.
In sede di separazione consensuale e divorzio congiunti, sono i coniugi a prendere di comune accordo le determinazioni relative all'assegno; anche in sede contenziosa vengono presi in considerazione gli accordi eventualmente raggiunti. L'autonomia privata svolge dunque un ruolo di rilievo ma si ritiene che vi siano limiti oltre i quali non possa andare, tenuto conto della funzione assistenziale propria degli assegni; tali limiti non sono precisamente stabiliti: da un lato la corresponsione dell'assegno può avvenire solo su domanda di parte e quindi sé il coniuge che ne avrebbe diritto non fa domanda, non ottiene l'assegno. Dall'altro si esclude la validità di una rinuncia espressa: si ammette però la validità di una dichiarazione con cui il coniuge riconosca di non avervi diritto; per quanto riguarda i patti presi in sede di separazione e di divorzio, i limiti sono ammessi e l'efficacia è sottoposta alla clausola “rebus sic santibus” ed è dunque possibile chiedere la revisione al mutare delle circostanze che ne costituiscono il presupposto.



-L'assegno di separazione
Le condizioni di vita separata portano alla necessità di costituire due organizzazioni domestiche distinte, con aumento dei conti ed impossibilità di realizzazione delle economie rese possibili dal fatto di vivere insieme; l'obbligo al mantenimento ha lo scopo di ovviare alle insufficienze di reddito del coniuge debole in modo da consentirgli di condurre un tenore di vita non troppo dissimile da quello precedente.
Con la pronuncia della separazione il giudice stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile il diritto di ricevere dall'altro quanto necessario al suo mantenimento, qualora non abbia redditi propri; l'entità della somministrazione è proporzionata alle circostanze ed ai redditi dell'obbligato.
Presupposti all'assegno di mantenimento sono:
a)mancanza di addebito a carico del beneficiario;
b)disparità di condizioni economiche tra coniugi;
c)mancanza di redditi che consentano al richiedente di mantenere il tenore di vita goduto in circostanza di matrimoni.
Non conta il fatto che la separazione sia stata o meno addebitata all'obbligato: questo non aggrava la sua posizione perché l'assegno non ha natura sanzionatoria ma di riequilibrio delle condizioni dei coniugi.
Direttiva generale fatta propria dalla giurisprudenza è quella della conservazione del tenore di vita goduto in circostanza di matrimonio, nei limiti consentiti dal reddito dell'altro coniuge e dalle circostanze concrete.
Questi criteri generali garantiscono al giudice ampia discrezionalità nell'applicazione concreta.
Il tenore di vita che l'assegno deve consentire di mantenere al coniuge separato è quello più elevato che l'altro avrebbe dovuto garantirgli in relazione alle sue possibilità economiche.
Le circostanze di cui dovrà tenere conto il giudice nella determinazione sono quelle di natura economica: le possibilità economiche sono valutate non solo in relazione ai redditi disponibili, ma tenendo conto anche delle sostanza, del matrimonio mobiliare o immobiliare; si deve poi tenere conto delle elargizioni effettuate in modo continuativo dai parenti e dalla persona con cui il coniuge ha instaurato, dopo la separazione, convivenza more uxorio.
Nella determinazione dell'assegno si deve tenere conto anche dell'assegnazione della casa familiare nella misura in cui determina un risparmio per uno ed un maggiore onere per l'altro.
La giurisprudenza vuole evitare che la separazione determini troppo brusche alterazioni del tenore di vita goduto in circostanza di matrimonio, nell'assunto che i coniugi separati restano comunque coniugi e devono condividere la buona e la cattiva sorte.
La separazione però determina l'organizzazione di due ambienti domestici diversi e, indipendentemente dal suo sfociare o meno nel divorzio, costituisce una condizione di vita profondamente diversa da quella della convivenza.


-L'assegno di divorzio


L'assegno di divorzio spetta al coniuge che non abbia mezzi adeguati o che non possa procurarseli per ragioni oggettive; viene determinato dal giudice tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi e valutando tutti gli elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.
L'articolo 156 cc fa riferimento alla mancanza di adeguati redditi propri mentre l'articolo 5 della legge sul divorzio parla di mancanza di mezzi adeguati ed indica quale ulteriore presupposto per l'attribuzione l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive alludendo principalmente all'attitudine a svolgere un'attività retribuita confacente alle condizioni personali e sociali del coniuge.
L'articolo 5 della legge 54/2006 elenca alcuni elementi che concorrono alla quantificazione dell'assegno:
1)condizioni e reddito dei coniugi;
2)ragioni della decisione;
3)contributo personale ed economico dato alla vita comune;
4)durata del matrimonio.
L'articolo 156 cc si limita ad indicare i redditi dell'obbligato e le circostanze del caso, rimettendo al giudice l'individuazione di quelle significative.
L'attuale disciplina dell'assegno di divorzio è frutto della riforma del 1987; ha rafforzato il coniuge debole introducendo più fonti di garanzia per il pagamento dell'assegno, riconoscendogli una quota dell'indennità di fine rapporto spettante all'altro e innovando la disciplina della pensione di reversibilità; ha poi modificato i criteri di determinazione dell'assegno divorzile.
Sulla base dell'articolo 5 della legge su divorzio, nella sua formulazione originale, si affermava la natura composita dell'assegno, chiamato a svolgere una triplice funzione:
-ASSISTENZIALE: attraverso il riferimento alle condizioni economiche dei coniugi, tutela il coniuge la cui situazione economica si sa deteriorata in seguito al divorzio;
-RISARCITORIA: con il riferimento alle ragioni della decisione, attribuisce rilievo alla responsabilità per il fallimento del matrimonio;
-COMPENSATIVA: valorizzando il contributo dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi, opera il riconoscimento dell'impegno personale o degli apporti di carattere economico dati alla vita comune.
Questi criteri sono intesi come criteri di attribuzione e determinazione dell'assegno.
Questa tesi attribuiva al giudice una discrezionalità troppo ampia e la riforma tra i suoi obiettivi si era proposta quello di modificare la configurazione dell'assegno, superando la natura composita ed ancorando il diritto a riceverlo al solo presupposto relativo alla mancanza di mezzi adeguati per provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita. Nel testo approvato cade la specificazione che l'assegno spetta solo ove il richiedente non abbia mezzi adeguati al mantenimento di un tenore di vita autonomo e dignitoso, resta però il riferimento ad un tenore di vita adeguato, lasciando all'interprete il compito di individuare i parametri in relazione ai quali commisurare l'adeguatezza.
La nuova norma mantiene il riferimento ai criteri precedenti (condizione coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi), introduce però la novità della valutazione di tutti questi elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.
Con la nuova disciplina all'assegno si attribuisce natura unicamente assistenziale con la finalità di riequilibrio delle condizioni patrimoniali dei coniugi, alterate dalla frattura della vita comune; il coniuge si considera privo di redditi adeguati quando non sia in grado di mantenere un tenore di vita corrispondente a quello matrimoniale e quindi anche quando pur potendo condurre con le proprie forze un'esistenza libera e dignitosa, non sia in grado di conservare il livello precedentemente goduto.
Il tenore di vita goduto durante il matrimonio, cui si deve fare riferimento è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi; si farà anche riferimento agli aumenti di reddito che possano essere considerati come normale e prevedibile sviluppo della situazione matrimoniale.
Il giudice di merito ha notevole discrezionalità nello stabilire il quantum dell'assegno: può valutare l'influenza dei diversi criteri moderatori sulla misura dell'assegno e può valorizzare anche uno solo di essi purché dia adeguata motivazione; la giurisprudenza dà peso al criterio della durata del matrimonio: in caso di matrimonio effimero contratto per ragioni eminentemente utilitaristiche, la Corte ha ritenuto chela breve durata dell'unione possa portare anche all'azzeramento dell'assegno.
Secondo l'orientamento giudiziale più diffuso la convivenza esercita la sua influenza sull'assegno divorzile poiché contribuendo a determinare le condizioni economiche del beneficiario, può portare alla sospensione o riduzione dell'assegno.



-L'assegno a favore dei figli


In sede di separazione e divorzio il giudice dispone anche un assegno a favore dei figli; i doveri dei genitori non vengono meno in seguito alla separazione ed al divorzio e resta fermo l'obbligo di provvedere ai bisogni dei figli in proporzione alle loro sostanze e secondo le loro capacità di lavoro professionale e casalingo.
Secondo la disciplina precedente all'approvazione della legge sul divorzio, per adempiere all'obbligo il genitore non convivente era tenuto a corrispondere all'affidatario un assegno per il mantenimento dei figli; questo era determinato in relazione alle possibilità economiche dei genitori e doveva tendere a conservare ai figli lo stesso tenore di vita di cui godevano prima della crisi. La determinazione veniva fatta tenendo cono delle circostanze del caso singolo e sulla base di prove acquisite anche d'ufficio.
La legge 54/2006 è profondamente innovativa della materia: la nuova disciplina, ora contenuta nell'articolo 337 te, stabilisce che salvo accordi diversamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento del figlio in maniera proporzionale al proprio reddito; con regola innovativa è poi disposto che ciascuno dei genitori provvede direttamente alle esigenze del figlio.
La determinazione dell'assegno è demandata in prima battuta all'autonomia privata, agli accordi tra i genitori dei quali il giudice deve tenere conto, altrimenti è fatta dal giudice sulla base di parametri indicati dall'articolo 337 ter cc IV (attuali esigenze del figlio, tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, tempi di permanenza presso ciascun genitore, risorse economiche di entrambi i genitori).
Si fornisce disciplina anche alla cura del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente; finché il figlio è minore è legittimato a chiedere l'assegno solo il genitore affidatario che può agire de iure proprio per il recupero di quanto già speso e per il contributo alle spese future.
Quando il figlio raggiunge la maggiore età la nuova norma stabilisce che salvo diversa determinazione del giudice tale assegno è direttamente versato all'avente diritto; la regola del versamento diretto al figlio pone problemi sostanziali n relazione al rapporto tra il figlio ed il genitore con cui convive, sia di tipo processuale relativi alla legittimazione attiva, all'eventuale intervento del figlio nella separazione per far valere la sua pretesa.
Si ritiene che il compimento della maggiore età non comporti automaticamente una modifica della situazione preesistente: anche dopo la maggiore età il coniuge con cui
convive il figlio maggiorenne non automaticamente autosufficiente conserva la legittimazione a chiedere il versamento dell'assegno; il figlio può chiederne la corresponsione diretta e può intervenire nel giudizio di separazione per far valere i propri diritti.
Il giudice deve valutare caso per caso sé la richiesta del figlio è giustificata alla luce della situazione concreta.
Le disposizioni previste a favore dei minori sono poi applicate integralmente ai figli maggiorenni portatori di handicap grave.




-Profili di disciplina comune degli assegni


Gli assegni di separazione e divorzio sono sottoposti a regole uniformi sotto numerosi profili:
a)Adeguamento automatico: per mantenere invariato il valore reale degli assegni
sottraendolo agli effetti dell'inflazione e riducendo il contenzioso giudiziario in sede di revisione dell'assegno, è espressamente previsto che la sentenza stabilisca un criterio di adeguamento automatico dell'assegno aggiungendo che il Tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione, con decisione motivata.
b)Corresponsione una tantum: l'attribuzione una tantum presuppone l'accordo dei coniugi e la valutazione di equità da parte dl giudice per garantire un equo contemperamento degli interessi dei coniugi, evitando forme di abuso o di prevaricazione.
Si tratta di un controllo opportuno soprattutto per quelle ipotesi in cui la corresponsione una tantum fa venir meno qualsiasi altro diritto a contenuto economico.
L'attribuzione una tantum non rende possibile alcuna successiva domanda di contenuto
economico; permette di dare un taglio netto ai rapporti patrimoniali tra ex coniugi e si rivela adatta a tutti quei casi in cui, superate le difficoltà iniziali, ritengono di poter far fronte in modo automatico alle proprie necessità. Può avvenire sia con pagamento di una somma di denaro in un'unica soluzione o in più rate, sia mediante il trasferimento della proprietà di beni mobili o immobili.
Anche in sede di separazione i coniugi possono concordare il pagamento in un'unica soluzione; il problema sarà quello di stabilire sé una tantum in sede di separazione precluda la possibilità di successive domande a contenuto economico; quali siano gli effetti della riconciliazione in ordine alle attribuzioni una tantum effettuate all'atto della separazione; e
soprattutto sé la corresponsione una tantum in sede di separazione impedisca la possibilità di presentare la domanda di assegno in sede di divorzio.
c)La revisione degli assegni: le statuizioni di natura economica relative ai coniugi ed alla prole stabilite in sede di separazione giudiziale, consensuale o di divorzio, possono essere modificate quando sopravvengono circostanze che ne alterano l'originario equilibrio, influendo sulle condizioni di reddito o di bisogno dell'uno e dell'altro coniuge. Alla revisione possono procedere i coniugi di comune accordo o mediante ricorso al giudice.
I provvedimenti relativi sono assoggettati alla clausola “rebus sic santibus” poiché sé ne può chiedere la revisione quando, dopo la sentenza, si verifichi un mutamento obiettivo della situazione in relazione alla quale furono determinati; il coniuge debitore che chiede la riduzione dell'assegno deve provare il peggioramento delle proprie condizioni economiche ed il miglioramento di quelle dell'altro.
Il coniuge creditore che chiede un aumento dell'assegno deve dimostrare il miglioramento delle condizioni dell'altro o il peggioramento delle proprie, dal punto di vista economico o personale; trattandosi di domanda di modifica, il giudice può solo confrontare le condizioni esistenti al momento della pronuncia di attribuzione dell'assegno con quelle attuali per verificare sé ne risulta alterato l'originario equilibrio.
Non tutti gli incrementi di reddito dell'obbligato giustificano una revisione, ma solo quelli che corrispondono ad aspettative maturate nel corso del matrimonio. La domanda di revisione può essere proposta anche nel caso in cui al momento della separazione o del divorzio l'assegno non fosse stato richiesto.
d)Le garanzie: a garanzia dell'adempimento dell'obbligo di corresponsione dell'assegno per il coniuge e la prole, la legge prevede mezzi cautelari preventivi e successivi; dispongono in questo senso l'articolo 156 cc e l'articolo 8 della legge 54/2006.
In caso di separazione ed in caso di divorzio il Tribunale può imporre all'obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale sé sussiste il pericolo che possa sottrarsi a tale adempimento.
Come ulteriore garanzia è prevista la possibilità che, in caso di inadempimento, i terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all'obbligato, versino direttamente agli aventi diritto, una parte di quanto dovuto all'altro. Secondo l'articolo 8 è il coniuge, indipendentemente da provvedimento giudiziale, che può direttamente ingiungere al terzo, effettuata inutilmente la costituzione in mora dell'obbligato, di corrispondergli una parte di quanto dovuto dall'obbligato.
Possono essere oggetto dell'ordine al terzo: redditi da lavoro dipendente pubblico o privato, i trattamenti pensionistici o i canoni corrisposti per il godimento di beni o le rendite.
Quando il terzo non adempie all'obbligo, l'ex coniuge creditore può agire direttamente in via esecutiva per vedere soddisfatte le sue ragioni.
Il giudice può poi disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato.





-I patti in vista del divorzio


I coniugi hanno spesso interesse a definire le proprie pendenze economiche nel momento il cui di fronte al giudice della separazione, per la prima volta formalizzano la crisi del matrimonio, con un accordo destinato ad essere definitivo, quali che siano le future sorti del vincolo.
La Corte di cassazione ritiene nulli per illiceità di causa gli accordi intesi a definire le conseguenze economiche di un futuro divorzio; questi sarebbero in contrasto con il principio fondamentale dell'indisponibilità dello status e dell'indisponibilità dell'assegno.
Il rilievo dato alla volontà dei coniugi nel regolare i reciproci rapporti patrimoniali emerge nella disciplina del divorzio congiunto dove gli accordi presi in fae anteriorerispetto a quella giudiziale, sono previsti come condizione necessaria per l'avvio della procedura.




-Altri effetti patrimoniali


Ulteriori effetti patrimoniali della separazione e del divorzio sono lo scioglimento della comunione legale, le aspettative pensionistiche, quelle relative all'indennità di fine rapporto, i diritti successori.




-La pensione di reversibilità


Il coniuge separato ha diritto alla pensione di reversibilità nel caso di morte dell'altro, in quanto la separazione non comporta la perdita dello status coniugale; la pensione spetta anche al coniuge cui sia stata attribuitala separazione.
Il coniuge divorziato, nel caso di assenza del coniuge superstite, ha diritto di percepire per intero della pensione di reversibilità a tre condizioni: che non sia passato a nuove nozze, che
sia titolare di assegno divorzile, che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio; il diritto del coniuge divorziato sorge in modo automatico al momento della morte dell'altro ed è indipendente sia dal suo stato di bisogno che dall'ammontare dell'assegno divorzile.
La titolarità dell'assegno di divorzio è presupposto per il diritto alla pensione di reversibilità e la titolarità sarà dunque intesa con l'avvenuto riconoscimento dell'assegno da parte del Tribunale; la legge prevede disciplina diversa per il caso in cui vi sia solo l'ex coniuge o questo concorra con un nuovo coniuge superstite: nel primo caso l'ex coniuge ha diritto per intero alla pensione di reversibilità, nel secondo, concorre con quello superstite ed il Tribunale dovrà determinare la quota di pensione che gli spetta tenendo anche conto della durata del rapporto.




-La quota di indennità di fine rapporto


Si attribuisce al coniuge titolare di assegno non passato a nuove nozze, una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro all'atto della cessazione del rapporto lavorativo; si precisa che la quota spetta anche sé l'indennità matura dopo la sentenza di divorzio ed è commisurata al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
La titolarità dell'assegno è presupposto per gli altri diritti di natura patrimoniale; il diritto sussisterebbe anche sé l'indennità viene a maturare dopo la sentenza: la Corte di cassazione ha chiarito che il coniuge non ha diritto ad alcuna quota sé l'indennità è maturata prima della proposizione della domanda di divorzio.




-I diritti successori


Il coniuge separato senza addebito ha gli stessi diritti successori del coniuge convivente mentre il coniuge separato con addebito ha diritto ad un assegno vitalizio sé al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge separato; l'assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e numero degli eredi legittimi e non è di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta.
Con il divorzio invece viene meno lo stato coniugale e qualsiasi aspettativa di natura
successoria ad esso collegata; per garantire meglio il coniuge divorziato, la riforma del 1987 ha previsto limitati diritti successori a condizione che gli fosse stato riconosciuto il diritto all'assegno e che si trovi attualmente in stato di bisogno.
La disciplina dell'assegno a carico dell'eredità ricalca quella dell'articolo 548 cc con il presupposto dello stato di bisogno: per la determinazione, l'importo è commisurato all'entità dell'assegno goduto, all'entità del bisogno, dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche.
L'assegno a carico dell'eredità non spetta nel caso in cui i diritti patrimoniali del coniuge divorziato siano soddisfatti con corresponsione una tantum; con la previsione di un assegno a carico dell'eredità non si vuole trasferire sugli eredi l'obbligo di pagare l'assegno ma si dà vita ad un diritto nuovo e distinto che ha propri presupposti ed autonomi criteri di determinazione.




-Gli effetti dell'invalidità del matrimonio. Il matrimonio putativo


La sentenza di nullità rende il matrimonio inefficace;per il futuro i coniugi non sono più tali e tra loro viene meno ogni obbligo di natura personale o patrimoniale, sono inoperanti le presunzioni di paternità del marito e di concepimento durante il matrimonio.
Per gli effetti già prodotti in passato, la sentenza di nullità dovrebbe travolgere ogni effetto del matrimonio in maniera retroattiva; il matrimonio nullo non è mai esistito, i coniugi non sono mai stati tali ed i figli risultano generati da persone non coniugate.
L'applicazione rigida di tale regola sarebbe iniqua sia per i coniugi che per i figli; per questo il codice civile contiene una previsione speciale in tema di matrimonio putativo (creduto valido): tale regola deroga a quella della retroattività e si ispira all'esigenza di tutela della buona fede ed al “favor legitimitatis”. Nei confronti del coniuge in buona fede e dei figli la disciplina civilistica fa sì che la sentenza di nullità del matrimonio non operi retroattivamente ma produca effetti ex nunc.
La riforma del 1975 introduce importanti novità: la conservazione dello stato legittimo dei figli indipendentemente dalla buona fede dei genitori, ed il riconoscimento nel casi di buona fede di entrambi i coniugi, di un assegno di durata non superiore a 3 anni per quello che si trova in condizione di debolezza economica; sé la nullità è imputabile all'altro coniuge, il coniuge in buona fede ha diritto ad un'indennità prevista all'articolo 129 bis: il matrimonio nullo così non perde gli effetti prodotti in passato ed è idoneo a produrne per l'avvenire.



-Gli effetti nei confronti dei figli


La disciplina degli effetti del matrimonio nei confronti dei figli è modificata dalla riforma della filiazione del 2012 per armonizzarla con il principio cardine della stessa secondo il quale i figli hanno lo stesso status e con la nuova disciplina del riconoscimento dei figli nati da relazioni parentali che è ammesso a prescindere dalla buona o mala fede dei genitori, previ autorizzazione del giudice a tutela dell'interesse dei figli.
Secondo la nuova disciplina i figli conservano il loro stato anche in seguito a nullità del matrimonio, a patto che non dipenda da incesto.
Nei confronti dei figli gli effetti del matrimonio valido si producono indipendentemente dalla buona fede dei coniugi; i figli, anche nati da matrimonio nullo conservano il proprio status. La legge accogli l'esigenza di tutela del loro preminente interesse, evitando che la condizione soggettiva dei genitori possa riflettersi sul loro status giuridico.




-Gli effetti nei confronti dei coniugi


Nei rapporti tra coniugi è salvo il principio secondo il quale gli effetti del matrimonio valido si producono fino alla sentenza di nullità solo a favore del coniuge o dei coniugi in buona fede;la buona fede consiste nell'ignoranza della causa di invalidità e ad essa sono equiparati la violenza ed il timore.
La buona fede deve essere valutata in termini soggettivi riferendosi alla condizione personale e sociale del coniuge; che lo stato di ignoranza o di errore rileva di per sé indipendentemente dalla scusabilità; che la buona fede deve sussistere al momento della celebrazione del matrimonio. La buona fede non deve essere dimostrata da chi la allega ma sarà l'altra parte a dover fornire la prova contraria. La buona fede dunque risulta corrispondente ad una condizione di errore o di ignoranza.
Un altro indirizzo la fa corrispondere alla nozione di imputabilità dell'annullamento: risulta una nozione più ristretta che esclude la buona fede nel caso di ignoranza dovuta a colpa grave ed in caso di errore di diritto.
Questo è l'indirizzo prevalente in giurisprudenza.
La regola espressa all'articolo 128 sembra avere carattere generale nel prevedere che la
nullità opera ex tunc solo nei confronti dei coniugi; tuttavia si hanno numerosi effetti che si producono fino alla sentenza di annullamento a prescindere dalla buona o mala fede dei coniugi.
Non devono essere restituiti, a prescindere dalla buona fede, i contributi dati alla vita comune, in adempimento all'obbligo ex articolo 143 cc, poiché hanno causa nello svolgimento della vita comune.
Fino al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento il coniuge separato ha diritto all'assegno di separazione; in seguito all'annullamento la moglie perde il diritto all'uso del cognome maritale.
Si esclude che l'annullamento del matrimonio determini la perdita del diritto alla cittadinanza la dichiarazione di nullità fa venire meno indipendentemente dalla buona fede, il vincolo di affinità.
Il minore che abbia conseguito l'emancipazione per effetto del matrimonio non la perde in seguito all'annullamento, indipendentemente dalla sua buona o mala fede.
Per quanto riguarda il regime patrimoniale:
1.COMUNIONE LEGALE e FONDO PATRIMONIALE: la comunione si scioglie per l'annullamento del matrimonio; la destinazione del fondo termina a seguito dell'annullamento del matrimonio.
Lo scioglimento della comunione legale si verificherebbe ex nunc solo a favore del coniuge in buona fede. Secondo altri il vincolo nascente dal fondo si estingue in conseguenza alla pronuncia della sentenza di annullamento del matrimonio ed opera, come effetto della sentenza, lo scioglimento della comunione legale, preludio alla divisione del patrimonio comune (non si fa riferimento alla buona fede).


La buona fede ha rilevanza ai fini successori: l'annullamento determina la perdita dello status di coniuge e anche dei diritti successori nei confronti dell'altro; nel caso in cui l'annullamento sia pronunciato dopo la morte del coniuge, però, si dispone che il coniuge superstite in buona fede conservi i suoi diritti sulla successione dell'altro, compresi i diritti di abitazione e d'uso.
Sé però il “de cuius” al momento della morte è legato da matrimonio valido, il coniuge putativo è escluso dalla successione a vantaggio di quello legittimo; il coniuge in mala fede non ha alcun diritto sulla successione dell'altro.
L'annullamento del matrimonio determina la nullità delle donazioni obnuziali compiute in favore dei coniugi; il coniuge in buona fede non è tenuto a restituire i frutti percepiti prima della domanda di annullamento del matrimonio: la buona fede non ha rilevanza sulla validità della donazione ma solo sul diritto di far propri i frutti della cosa.



-L'assegno temporaneo e la responsabilità del coniuge in mala fede


Con una previsione innovativa gli articoli 129 e 129 bis determinano la corresponsione di  un assegno al coniuge in buona fede; questi articoli si propongono di assicurare tutela economica al coniuge in buona fede. L'assegno previsto all'articolo 129 è temporaneo e ha carattere assistenziale a prescindere da eventuali profili di responsabilità, l'indennità all'articolo 129 bis invece ha funzione risarcitoria del danno subito dal coniuge in buona fede.
Dell'uno e dell'altro rimedio la legge stabilisce le condiioni di attriubzione e quantificazione, riconoscendo al giudice ampio margine discrezionale; i coniugi però possono regolare convenzionalmente i rapporti patrimoniali successivi all'annullamento: si ritiene siano validi i patti destinati a regolare i rapporti economici successivi all'annullamento, mediante corresponsione di un assegno o attraverso trasferimenti immobiliari.
Nel caso in cui le condizioni relative al matrimonio putativo si verifichino nei confronti di entrambi i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno ed a favore dell'altro, per non più di 3 anni, l'obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro in proporzione alle sue sostanze, ove il beneficiario non abbia redditi propri adeguati e non sia passato a nuove nozze.
Diversamente da quelli di separazione e divorzio, l'assegno in caso di annullamento matrimoniale ha carattere temporaneo e tende a mettere l'altro in grado di riorganizzare la propria vita e provvedere autonomamente a sé stesso.
Per la sua quantificazione, l'assegno in caso di annullamento no si differenzia da quello di separazione: spetta al coniuge in buona fede nel presupposto che non abbia redditi propri adeguati e cioè sufficienti a garantire un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
L'articolo 129 bis configura una particolare responsabilità a carico del coniuge cui sia imputabile l'invalidità del matrimonio; il coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, ha diritto ad una congrua indennità anche in mancanza di prova del danno sofferto,indennità che deve comunque comprendere il mantenimento per 3 anni. Questi elementi sembrano accentuare la funzione sanzionatoria della responsabilità del coniuge cui è imputabile l'invalidità del matrimonio, senza farle perdere i caratteri di obbligazione risarcitoria.
L'indennità spetta al coniuge in buona fede a patto che l'annullamento sia imputabile
all'altro: questo non solo implica che la causa di annullamento sia riferibile oggettivamente alla sfera dell'altro coniuge, ma presuppone anche criterio soggettivo di imputazione. Perché si abbia imputabilità in senso soggettivo occorre che il coniuge abbia tenuto un comportamento tale da indurre l'altro a concludere un matrimonio non valido; può trattarsi di condotta attiva quando il coniuge abbia posto in essere raggiri o quando abbia esercitato pressioni o minacce; può trattarsi anche di condotta omissiva, reticente per non aver informato l'altro coniuge di circostanze rilevanti per la formazione di valido consenso.
Il diritto al risarcimento presuppone che il coniuge richiedente sia in buona fede, buona fede che si identifica con la condizione di ignoranza, al momento della celebrazione, delle circostanze dalle quali dipende l'invalidità; alla buona fede si equipara la condizione del coniuge che abbia subito violenza o timore. La buona fede è esclusa dalla conoscenza e dall'ignoranza colpevole.
L'indennità deve essere congrua e in assenza di prova del danno, deve almeno comprendere il mantenimento per 3 anni, attribuendo al giudice ampi poteri discrezionali da esercitare in abito di valutazione equitativa.
Sono risarcibili gli ulteriori danni di cui si riesca a dare prova, ed il risarcimento può comprendere, oltre al danno patrimoniale, anche quello non patrimoniale.
La disposizione in esame riconosce infine al coniuge in buona fede un diritto alimentare nei confronti dell'altro, cui l'invalidità sia imputabile a condizione che non sussistano altri soggetti obbligati agli alimenti verso il coniuge che ne ha diritto.




-Gli effetti patrimoniali della sentenza di nullità pronunciata dai giudici ecclesiastici


La disciplina contenuta negli articoli 128-129 bis si applica anche nel caso in cui la nullità sia pronunciata dai Tribunali ecclesiastici con sentenza riconosciuta agli effetti civili; la Corte d'appello nel riconoscere effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità, può statuire provvedimenti economici provvisori a favore del coniuge che ne avrebbe diritto sulla base degli articoli 129 e 129 bis, rimandando le parti davanti al giudice competente di primo grado per la decisione di tali questioni.
La disciplina dei provvedimenti patrimoniali conseguenti della deliberazione di sentenze ecclesiastiche è molto delicata; nullità civile e nullità canonica sono molto diverse. Nella prassi il ricorso alla nullità canonica è alternativa al divorzio che si spiega in funzione di scelte di coscienza e vantaggi economici conseguenti; dal punto di vista formale però entrambe le nullità dipendono da un vizio preesistente alla celebrazione.
L'interesse delle parti ad ottenere, in seguito alla sentenza di divorzio, la pronuncia di nullità, si spiega in ragione della diversità delle conseguenze patrimoniali e successorie del divorzio e della nullità; la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso non costituisce ostacolo alla successiva deliberazione della sentenza ecclesiastica di nullità e fa venir meno l'assegno di divorzio.
La Corte di cassazione ha affermato che la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità in epoca successiva al divorzio non travolge le statuizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio perché il relativo diritto è attribuito con sentenza passata in giudicato.









CAPITOLO 8: RAPPORTI TRA GENITORI E FIGLI


-I diritti dei minori tra famiglia e società


La condizione del minore nella famiglia e nella società si è radicalmente trasformata a metà del secolo scorso: il minore, nell'Ottocento, era inteso come oggetto dei diritti degli adulti, soggetto a patria potestà con poteri assoluti.
Il passaggio ad una concezione del minore quale soggetto di diritti si avvia con le dichiarazioni dei diritti che fanno seguito alla seconda guerra mondiale, a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948, dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 fino alla più recente Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo (NY) del 1989.
anche in ambito europeo si affermano i diritti del minore nella famiglia e nella società e nella recente Carta dei diritti fondamentali dell'UE (Nizza 2000) sono enunciati all'articolo
24 diritti fondamentali del bambino ed il loro carattere preminente su quello degli adulti.
La Carta di Nizza dedica particolare attenzione ai diritti del bambino: il diritto del bambino alla protezione ed alle cure; si garantisce al bambino il diritto al benessere condizione complessiva che abbraccia la sfera sociale, economica e morale e che impone agli Stati soprattutto obblighi positivi intesi a promuovere il benessere del bambino.
Si riconosce il diritto dei minori ad esprimere liberamente la propria opinione che deve essere presa in considerazione in relazione all'età e maturità; il minore quindi si vede
riconosciuto uno spazio di autonomia che deve essere rispettato. La carta stabilisce poi che l'interesse superiore del bambino deve essere considerato come preminente in tutti gli atti compiuti da autorità pubbliche ed istituzioni private; l'interesse preminente del bambino è il risultato cui devono mirare le decisioni che lo riguardano: l'interesse del minore deve essere riferito alla situazione concreta in cui il minore si trova, tenuto conto dei suoi reali bisogni e della sua specifica situazione esistenziale.
Si afferma infine il diritto di intrattenere regolari relazioni con entrambi i genitori, salvo quando questo sia contrario ai suoi interessi.
Anche il diritto italiano compie un'inversione di tendenza: approvazione della Costituzione Repubblicana ed attuazione dei principi contenuti nella stessa tramite modifiche del diritto familiare (legge istitutiva dell'adozione speciale; riforma del diritto di famiglia; riforma della filiazione).
La riforma del 1975 poi ridefinisce i poteri dei genitori il cui esercizio deve tenere conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli; al minore sono poi concessi maggiori spazi di autonomia nelle decisioni che lo riguardano.
La riforma del 2012 sviluppa questi principi: giunge alla piena unificazione dello status del figlio e sostituisce la nozione di potestà con quella di responsabilità genitoriale; il riconoscimento di dignità, identità ed autonomia del minore, insieme alla responsabilità degli adulti e delle istituzioni nella formazione della sua personalità, è alla base delle dichiarazioni dei diritti menzionate.
Si fa strada però la necessità di passare dall'enunciazione all'attuazione dei diritti; in altri termini si afferma l'idea che il principale compito delle istituzioni nei confronti della famiglia sia quello di agevolarla nello svolgimento dei suoi compiti, sostenendo le responsabilità genitoriali con misure appropriate.
In questo quadro generale si inserisce la maggiore attenzione per la violenza cui è esposto il minore, sia essa sessuale, sfruttamento della prostituzione, pornografia, turismo sessuale o violenza nelle relazioni familiari.
Il rispetto della vita privata familiare implica la garanzia del rapporto tra genitori e figli al riparo da ingiustificate ingerenze esterne ed il riconoscimento di più ampi spazi di autonomia della famiglia nei confronti dei pubblici poteri; il riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio vale a limitare i poteri di ingerenza dello Stato al suo interno.
La protezione dei soggetti deboli, figli minori, giustifica l'intervento pubblico ma ne costituisce il limite: il rispetto della vita familiare esige che le autorità trovino un equilibrio tra gli interessi del figlio ed i diritti dei genitori; il bambino infatti ha diritto di vivere nella propria famiglia ed è compito delle istituzioni intervenire con misure concrete per renderne
possibile l'attuazione.







-Eguaglianza dei figli e rapporti con i genitori. Dalla discriminazione all'unicità dello status


Nel codice civile la disciplina della filiazione affronta due ordini di problemi:
a)modi di costituzione dello status o accertamento della filiazione;
b)contenuto del rapporto tra genitori e figli e dei reciproci diritti e doveri.


C'è un problema preliminare che riguarda entrami: i figli nati nel matrimonio ricevono trattamento giuridico preferenziale o tutti i figli sono uguali ed hanno il medesimo status? In Italia l'unicità dello status di figlio è conquista recente , frutto della riforma del 2012.
Nel sistema preesistente il matrimonio costituiva il fondamento della filiazione poiché solo i figli nati al suo interno godevano di una posizione giuridica pienamente tutelata; con il passare del tempo il matrimonio perde il ruolo di selezione dei rapporti parentali.
Oggi la posizione del figlio è pienamente tutelata indipendentemente dal matrimonio tra i genitori.




-Dal codice civile del 1942 alla riforma del 1975


Il codice del 1942 riserva ai figli nati fuori del matrimonio un trattamento giuridico differenziato e deteriore rispetto a quelli legittimi; la tutela esclusiva ancora riconosciuta alla famiglia legittima, cellula fondamentale della società, si traduceva in una disciplina che penalizzava le unioni non coniugali ed i figli nati da tali unioni. Fuori del matrimonio lo status del figlio poteva essere accertato solo in casi limitati ed anche nei casi in cui potevano essere riconosciuti, i figli cosiddetti illegittimi avevano diritti più limitati, anche in campo successorio.
Il tramonto di questa concezione si deve ai principi costituzionali (espressi negli articoli 2, 3, 29, 31 e 39) ed agli orientamenti della Corte costituzionale che dagli anni 60 ha eliminato le disparità di trattamento, specie in campo successorio, alla riforma del diritto di famiglia
del 1975 e a quella della filiazione del 2012.
Obbligo di mantenimento, esercizio della potestà, doveri dei genitori verso i figli, obblighi alimentari, seguono regole identiche, quali che siano le origini dei figli; identici sono ora anche i diritti successori.
La differenza più significativa riguardava il rapporto con i parenti: si escludeva che al di fuori del matrimonio il figlio stabilisse rapporti di parentela con gli altri familiari in linea collaterale; il problema riguardava soprattutto i rapporti tra fratelli generati da persone non coniugate: non si aveva parentela in mancanza di matrimonio tra i genitori.




-La riforma del 2012 e lo stato unico di figlio


La riforma della filiazione è stata attuata in due tempi: prima con la legge 219/2012 e poi con il d.Lgs 154/2013 che la completa. Parliamo di una riforma importante che ha unificato la condizione giuridica dei figli, rendendola indifferente rispetto al fatto che i genitori siano uniti in matrimonio o meno; la legge segna una svolta rispetto al passato: non esistono più figli legittimi o naturali, ma solo figli.
Con la riforma si afferma che il legame di parentela tra le persone che discendono da uno stesso stipite in ogni ipotesi di filiazione nata nel e fuori del matrimonio; si esplicita l'unificazione dello status e vengono disciplinati nello stesso modo i diritti e doveri tra genitori e figli.
L'unificazione dello status di figlio comporta l'abrogazione della legittimazione dei figli naturali; segna una svolta nel diritto della filiazione realizzando la separazione tra filiazione e matrimonio in forza della quale la condizione giuridica del figlio è tutelata in ogni ordine di rapporti come valore autonomo e indipendente dal vincolo eventualmente esistente tra i genitori.
Si intende non svalutare il matrimonio, ma considerare il rapporto di filiazione come valore originale e non dipendente, si intende attuare pienamente il principio di eguaglianza di tutti i figli, senza distinzioni di nascita, dare tutela al preminente interesse del minore, realizzare il principio di responsabilità per la procreazione.
Il principio è declinato in altre disposizioni della legge 219/2012:
1.NOZIONE DI PARENTELA: il legame di parentela ora sussiste tra le persone che discendono da uno stesso stipite in ogni ipotesi di filiazione nata nel e fuori del matrimonio; si precisa che il riconoscimento produce effetti nei confronti del genitore da cui è fatto e riguardo ai parenti di quest'ultimo. Il rapporto con i parenti è escluso
nel caso di adozione del maggiorenne.
2.NUOVA TERMINOLOGIA: viene eliminata ogni differenza di natura lessicale;
3.ABROGAZIONE DELLA LEGITTIMAZIONE: l'istituto costituiva il segno evidente della differenza che nel sistema preesistente segnava la condizione dei figli legittimi e naturali; rappresentava lo strumento per far conseguire ai secondi la condizione pienamente tutelata riservata ai primi
Stabilita l'unicità, la legittimazione scompare.
4.STATO UNICO DEL FIGLIO E SUCCESSIONI: il decreto legislativo 154/2013 revisiona complessivamente le norme sulle successioni necessarie e legittime alla luce del principio dell'unicità dello status di figlio e della nozione di parentela fondata sulla generazione e on sul matrimonio. Sono riscritte le norme sulla successione legittima e necessaria per adeguarle alla nuova nozione di parentela:
-i figli hanno diritti sulla successione legittima dei parenti entro il 6° grado;
-ai genitori e agli ascendenti è riconosciuta quota di riserva sulla successione del figlio o nipote;
-la rappresentazione in linea collaterale opera a favore dei discendenti dei fratelli
Si abroga il diritto alla commutazione.
La disciplina transitoria rende applicabili le nuove norme sulla successione dei parenti, anche alle successioni aperte prima dell'entrata in vigore della riforma.
5.RESIDUE DISPARITÀ DI TRATTAMENTO: la riforma unifica la condizione giuridica dei figli con alcune ambiguità; è preservata la disposizione che riguarda l'inserimento del figlio nato fuori del matrimonio nella famiglia del suo genitore: la nuova disciplina consente al giudice di superare il rifiuto di consenso espresso dagli altri figli ma non si capisce perché la convivenza del figlio nato fuori del matrimonio con la famiglia del suo genitore debba essere soggetta a regole diverse da quelle di carattere generale che regolano la convivenza con qualsiasi altro parente od estraneo con la famiglia.




-I modi di accertamento della filiazione: favor legitimitatis, favor veritatis, principio di responsabilità


Unicità dello status di figlio non vuol dire solo eguaglianza di tutti i figli senza discriminazioni derivanti dalla nascita; significa anche tutela della filiazione come valore indipendente dal matrimonio ed irrilevanza del matrimonio nel definire le condizioni
giuridiche dei figli.
La riforma del 2012 modifica le regole riguardanti l'accertamento dello status, conservando la fondamentale differenza per cui sé i genitori sono sposati avviene in modo automatico nei confronti di entrambi, per effetto della denuncia di nascita all'ufficiale di stato civile, mentre nel caso si genitori non coniugati occorre il riconoscimento o una sentenza del giudice.
Nella disciplina del 1942 le regole relative al riconoscimento del figlio si fondavano sul principio del favor legitimitatis: come sul piano del rapporto di filiazione ai figli legittimi era riservata trattamento giuridico favorevole, anche sul piano dell'accertamento di status si aveva tendenza favorevole ad attribuire al figlio lo stato legittimo, anche in situazioni in cui la responsabilità del concepimento fosse difficilmente attribuibile al marito.
Le ragioni del favor legitimitatis consistevano nell'esigenza di assicurare al figlio uno status giuridico più tutelato e nell'interesse generale alla salvaguardia dell'onore e della coesione della famiglia legittima.


Dalla riforma del 1975 emerge una diversa tendenza, che dà maggiore spazio alla verità biologica tendendo ad assicurare una maggiore corrispondenza tra verità naturale e certezza giuridica del rapporto di filiazione; è più circoscritto l'ambito di applicazione delle presunzioni legali di paternità e di concepimento durante il matrimonio; è poi ampliata la possibilità di dimostrare la non paternità del marito.
Questa tendenza alla corrispondenza della verità naturale e la certezza legale della filiazione trova conferma anche fuori del matrimonio: la riforma ammette il riconoscimento dei figli adulterini ed amplia i casi in cui è possibile agire per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità.
La riforma attua il principio di responsabilità per il fatto della procreazione in virtù del quale chi ha tenuto comportamenti tali da portare alla nascita di un figlio è responsabile della sua formazione.
Per quel che riguarda la filiazione fuori del matrimonio, esistono ancora casi per i quali il riconoscimento non è possibile: prima di aver compiuto 16 anni il genitore non può riconoscere il figlio; nel caso di generazione tra parenti stretti il riconoscimento è ammesso solo sé il giudice accerta che questo non contrasta con l'interesse del figlio.
Nel diritto italiano il riconoscimento è sempre atto volontario anche quando proviene dalla madre.


Anche le azioni di impugnativa della paternità (disconoscimento, impugnativa del riconoscimento) sono soggette a termini di decadenza tali per cui il decorso, senza che l'azione sia esercitata rende definitivamente accertata una paternità che potrebbe non
corrispondere al vero.
Non sempre le norme sulla filiazione sono ispirate alla corrispondenza dello status giuridico alla verità naturale; l'adozione dei minori consente di dar vita ad un rapporto di filiazione legittima in assenza del vincolo biologico di generazione.
Vi è un altro caso in cui la verità della filiazione passa in secondo piano rispetto alla realizzazione dell'interesse del minore: caso del secondo riconoscimento del figlio, sottoposto, nell'interesse del figlio, al consenso del genitore che ha riconosciuto per primo o all'autorizzazione giudiziale.
La riforma del 2012 ha facilitato l'esercizio del secondo riconoscimento, rendendolo impossibile sé in contrasto con l'interesse del figlio.
La Corte costituzionale ha poi stabilito che anche l'accertamento giudiziale della paternità del figlio nato fuori del matrimonio sia ammissibile solo sé non in contrasto con l'interesse del figlio.
La valutazione dell'interesse del figlio caratterizza la nuova disciplina; lo stato giuridico del figlio non dipende dunque solo dal principio di verità biologica, ma è legato a fattori sociali di responsabilità.


All'unicità dello stato giuridico del figlio corrisponde una pluralità di titoli della filiazione: la generazione, l'adozione, l'assunzione di responsabilità verso il figlio.



-La nascita nel matrimonio


Nell'accertamento della filiazione l'elemento incerto è quello della paternità: quando i genitori sono sposati, il problema è semplificato dal fatto che la nascita da donna sposata lascia presumere che il figlio sia generato dal marito. La nascita dalla madre e l'esistenza del matrimonio dei genitori non presentano problemi in relazione alla prova; il matrimonio risulta dai registri di stato civile e la maternità è provata dal parto e dalla relativa attestazione di chi vi ha assistito.
La paternità del marito è presunta dalla legge; in presenza delle circostanze indicate il figlio generato nel matrimonio acquista lo status di figlio come automatica conseguenza della denuncia di nascita all'ufficiale di stato civile e della formazione dell'atto di nascita. Lo status di figlio opera in modo automatico nei confronti di entrambi i genitori dando luogo ad una relazione che coinvolge direttamente i tre soggetti della generazione: i coniugi ed il figlio.


-La paternità del marito. Presunzioni di paternità e di concepimento


L'obbligo di fedeltà cui i coniugi sono tenuti, e l'esclusività della relazione sessuali che li lega, consente al legislatore di presumere che il marito sia padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio; la presunzione di paternità è in generale conseguenza del riconoscimento del valore sociale del matrimonio.
L'attribuzione di paternità al marito presuppone che il figlio sia stato generato dalla moglie; la maternità è dimostrata dal parto e dalla dichiarazione di nascita che contiene le generalità della madre, omesse solo nel caso in cui la stessa abbia espresso la volontà di non essere nominata. Tale facoltà è riconosciuta sia alla donna nubile che a quella coniugata: il figlio potrà proporre l'azione di reclamo per ottenere il riconoscimento del proprio stato.
La nascita da donna coniugata comporta sempre l'accertamento automatico in capo alla madre ed al marito di lei sulla base della denuncia di nascita;il fatto che la presunzione di paternità operi per tutti i figli nati nel matrimonio implica un ripensamento della presunzione di concepimento.
Nella disciplina riformata il marito è padre dei figli nati dopo il matrimonio e non oltre i 300 giorni dal suo venir meno per separazione, divorzio o annullamento; per il caso di nascita oltre i 300 giorni è possibile provare il concepimento in costanza di matrimonio, dimostrando che la gravidanza si è protratta eccezionalmente oltre i 300 giorni.
Perché la presunzione di paternità operi occorre che il figlio sia nato dalla madre durante il matrimonio; matrimonio che deve essere produttivo di effetti civili, ma non necessariamente matrimonio valido. Non rileva il fatto che il matrimonio sia stato annullato per impotenza, che può costituire buona ragione di disconoscimento.
La presunzione di paternità non opera nel caso in cui il figlio generato da donna sposata sia riconosciuto nell'atto di nascita dal vero padre o dalla madre stessa che dichiara di averlo avuto fuori del matrimonio.
Non è figlio del marito quello concepito durante la separazione; sé il figlio nasce in seguito a rapporti anche occasionali tra coniugi separati è possibile far risultare la paternità del marito. La riconciliazione, che fa cessare ogni effetto della separazione rende nuovamente operante la presunzione di paternità.



-La nascita fuori del matrimonio. Il riconoscimento
Per i genitori non coniugati l'accertamento formale dello status avviene con il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale.
La riforma del 1975 ha ampliato i casi in cui i figli nati fuori del matrimonio possono essere riconosciuti volontariamente o in via giudiziale: l'accertamento di status costituisce il primo diritto del figlio, ne tutela la dignità, l'identità familiare e sociale. Per questa ragione la Corte costituzionale ha messo in discussione i limiti che dopo la riforma circondano l'accertamento di stato dei figli nati fuori del matrimonio.
Mentre l'accertamento della filiazione all'interno del matrimonio avviene in maniera automatica, fuori del matrimonio occorre atto volontario di riconoscimento da parte di ciascun genitore; il rapporto che si costituisce riguarda individualmente ciascun genitore ed il figlio.
Il riconoscimento è quindi atto volontario e discrezionale di ciascun genitore; per riconoscere il figlio occorre che il genitore abbia compiuto 16 anni salvo che il giudice lo autorizzi, valutate le circostanze ed avendo riguardo per l'interesse del figlio. Il riconoscimento può essere compiuto dalla madre e dal padre anche sé uniti in matrimonio ad un'altra persona al momento del concepimento:
1.RICONOSCIMENTO DELLA MADRE: il riconoscimento è necessario anche per l'accertamento della maternità; in Italia l'accertamento della maternità segue regole diverse nel e fuori del matrimonio: la donna sposata è madre in seguito alla denuncia della nascita, la donna non coniugata lo diventa in seguito al riconoscimento.
Il parto anonimo vuole proteggere la madre ed il bambino: quando la donna si trova in situazione di grave disagio personale e sociale che non le permette di tenere il bambino con sé, ha la possibilità di partorire in ospedale con la sicurezza di restare anonima. L'adozione del bambino seguirà una via preferenziale.
Fuori da questo caso particolare, l'accertamento automatico è garanzia per la donna e per il nato, cui è assicurata certezza dello status nei confronti della madre fin dalla nascita anche nelle ipotesi in cui il riconoscimento non sia possibile o sia oggetto di contestazione.
2.RICONOSCIMENTO DEI FIGLI NATI DA RAPPORTI PARENTALI: il riconoscimento è ammissibile per tutti i figli anche sé generati da persona coniugata; l'unica eccezione prevista dalla riforma del 75 era quella relativa ai figli incestuosi nati da parenti stretti, il cui riconoscimento era ammesso solo ad opera de genitore in buona fede e con autorizzazione del giudice.
La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità dei figli incestuosi è ammessa oggi anche ad opera del genitore in mala fede, previa valutazione dell'interesse del figlio.
La riforma del 2012 cancella il termine “figli incestuosi” e prevede che il giudice possa autorizzare, avendo riguardo dell'interesse del figlio, il riconoscimento del figlio nate da
persone legate da vincolo di parentela in linea diretta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta.
3.CONSENSO E ASSENSO AL RICONOSCIMENTO: ad integrazione dell'atto di riconoscimento, si richiede in alcuni casi, il consenso dl figlio o l'assenso dell'altro genitore; sé il figlio ha compiuto 14 anni il riconoscimento non produce effetti senza il suo consenso, per il minore di 14 anni invece occorre il consenso dell'altro genitore che non può rifiutarlo sé risponde all'interesse del figlio.
Sé il consenso dell'altro genitore viene rifiutato si prevede ora che il genitore che voglia riconoscere l figlio, ricorre al giudice competente che fissa un termine per la notifica del ricorso all'altro genitore. Sé non è proposta opposizione entro 30 giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante. Sé viene proposta opposizione, il giudice assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti per instaurare la relazione, salvo che l'opposizione sia palesemente infondata.
Il figlio che ha compiuto 12 anni e di età anche inferiore, sé capace di discernimento, deve essere ascoltato dal giudice durante il procedimento.
Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti
opportuni in relazione all'affidamento ed al mantenimento del minore.
Con la previsione del consenso del genitore e dell'autorizzazione del giudice la legge vuole proteggere il figlio contro riconoscimenti tardivi, tali da pregiudicare la crescita o le relazioni familiari o sociali del minore.
L'interesse del minore è criterio in base al quale il giudice deve concedere o negare l'autorizzazione; la ratio della riforma del 2012 è quella di salvaguardare la relazione tra il figlio ed il genitore che riconosce per secondo. Il termine di 30 giorni stabilito dal giudice per il genitore che rifiuta il consenso serve a verificare l'effettiva determinazione di insistere nel rifiuto. Sé l'opposizione presentata è palesemente fondata, il giudice l'accoglie, altrimenti detta provvedimenti provvisori ed urgenti volti a recuperare la relazione tra genitore e figlio.
Con la decisione finale il giudice accoglie l'opposizione, o pronuncia una sentenza che tiene luogo del consenso mancante; in questo caso, novità rilevante, il giudice assume anche i provvedimenti opportuni in materia di affidamento, mantenimento del figlio e del suo cognome.
4.LA FORMA DEL RICONOSCIMENTO: per l'accertamento della filiazione, il riconoscimento deve essere effettuato in forma pubblica; può essere fatto dai genitori separatamente o anche congiuntamente e può essere contenuto nell'atto di nascita o effettuato con una dichiarazione distinta da quella di nascita, resa all'ufficiale di stato civile o contenuta in un atto pubblico o testamento. Il riconoscimento può essere fatto
prima o dopo la nascita; dato che il riconoscimento fatto da uno dei genitori non può contenere indicazioni relative all'altro, il riconoscimento del concepito può essere fatto dal padre solo congiuntamente alla madre; nel caso di riconoscimento per testamento, i suoi effetti si produrranno al momento della morte del testatore come conseguenza dell'efficacia post mortem del testamento.
Una volta compiuto, il riconoscimento è irrevocabile; anche nel caso in cui trattandosi di riconoscimento testamentario, sia stato revocato il testamento.



-La prova della filiazione


Per la prova della filiazione gli articolo 236 cc e seguenti, dal 2012 si applicano a tutti i figli in modo tale che la filiazione sia provata con l'atto di nascita ed in sua mancanza, con il possesso di stato del figlio; per quanto riguarda il figlio nato da genitori non coniugati, dall'atto di nascita deve risultare l'avvenuto riconoscimento.
L'atto di nascita è prova per eccellenza della filiazione e si suole parlare dell'atto di nascita come titolo dello stato del figlio; oggi però si ritiene che lo stato del figlio dipenda dalla generazione.
L'atto di nascita costituisce prova legale, mezzo di accertamento della filiazione.
Non è ammissibile un riconoscimento di status in contrasto con le risultante dell'atto di stato civile sé prima non è contestato il titolo da cui esso risulta; chi intende dare prova contraria alle risultane dell'atto di nascita deve necessariamente promuovere apposito giudizio di stato.
Nel caso in cui manchi l'atto di nascita, la prova è data dal possesso di stato; il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel complesso valgono a dimostrare l'appartenenza di una persona ad una certa famiglia e la sua discendenza da coloro che pretendono essere i suoi genitori. Si tratta di un insieme di circostanze delle quali non deve mai mancare il nomen, il tractatus e la fama: occorre dunque che la persona abbia sempre portato il cognome del padre; che il padre l'abbia trattata come figlio ed abbia provveduto al mantenimento, all'educazione ed al collocamento della stessa; che sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.
La prova del possesso di stato può esser fornita da chiunque, in qualunque tempo, nel corso di qualsiasi processo, senza bisogno di apposita azione di stato.
In mancanza dell'atto di nascita e del possesso di stato, o quando il figlio sia iscritto sotto falso nome o come figlio di ignoti, può essere promosso il giudizio di reclamo di stato.







-Le azioni di stato


Possono essere divise in due grosse categorie: azioni di impugnativa e azioni di reclamo a seconda che tendano a contestare o conseguire lo stato.



-Le azioni di contestazione dello stato


Nel sistema precedente erano due: azione di disconoscimento per la paternità e contestazione per la maternità, e impugnativa di riconoscimento per la filiazione naturale. Il disconoscimento del figlio legittimo era ammesso solo in casi limitati, ad iniziativa di soggetti chiaramente identificati ed entro termini ben specifici; l'impugnativa di riconoscimento invece era ammessa ogni volta che ne si potesse provare la veridicità, su iniziativa di chiunque interessato, senza limiti di tempo.
Unificato lo status di figlio, il principio di unicità dovrebbe rilevare sia in relazione al contenuto del rapporto che in relazione ai modi di accertamento e contestazione dello status; ai figli dovrebbero essere offerte le stesse possibilità di dare certezza formale allo status e deve essere garantita la stessa certezza e stabilità dello status conseguito.
La riforma del 2012 ha tuttavia conservato distinte le azioni di contestazione della paternità, nel e fuori del matrimonio:


a)Azione di disconoscimento della paternità: il disconoscimento nel sistema originario mirava a mettere in discussione il matrimonio attraverso la prova della rottura, con l'adulterio, del patto in cui questo si sostanzia; anche l'impotenza e la mancata coabitazione erano prove indirette ma certe dell'adulterio.
Il baricentro dell'azione si è spostato nel tempo dalla prova dell'adulterio alla prova della non paternità. L'impugnativa del riconoscimento invece è stata sempre fondata sulla prova della non veridicità.
L'articolo 235 cc è stato abrogato dal dlgs 154/2013 ed ora la disciplina del disconoscimento di paternità è contenuta negli articoli 243 bis-245 cc; non esistono più casi limitati in cui questa è proponibile ed il fulcro dell'azione è la prova della non paternità del marito.
L'azione può essere esercitata dal marito, dalla madre, dal figlio o da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del figlio maggiore di 14 anni o nominato dal PM o dall'altro genitore per figlio minore di 14 anni. Il PM nel promuoverla ed il Tribunale nell'accoglierla devono valutare l'interesse del minore al mutamento di status; non è legittimato ad agire in disconoscimento il vero padre che può però sollecitare l'intervento del PM.
Chi esercita l'azione deve provare che non esiste rapporto tra il presunto padre ed il figlio; la dichiarazione della madre non esclude la paternità, ma vi si può attribuire valore di indizio da valutare ad opera del giudice insieme alle altre risultanze probatorie.
I termini per proporre l'azione sono variabili a seconda dei soggetti legittimati:
-imprescrittibile per il figlio;
-per la madre sei mesi dalla nascita o dalla scoperta dell'impotenza del marito
-per il marito un anno dalla nascita o dalla scoperta dell'adulterio della moglie o della propria impotenza; in questi casi l'azione non è proponibile decorsi 5 anni dalla nascita: questa previsione vuole garantire la certezza dello status,l'interesse del figlio alla continuità del rapporto parentale, anche a scapito della verità della generazione.
La sentenza di disconoscimento deve essere annotata in calce all'atto di nascita; per effetto della sentenza il figlio non è più figlio del marito e perde l'uso del cognome paterno, a meno che non ne chieda la conservazione perché segno distintivo dell'identità personale. Il marito a sua volta perde la qualità giuridica di padre.
La sentenza di accoglimento ha efficacia retroattiva e si ritiene valido il riconoscimento fatto dal vero padre, anche in epoca anteriore al disconoscimento.
b)L'impugnazione di riconoscimento: nel caso del figlio nato fuori del matrimonio, la paternità può essere messa in discussione con l'impugnazione del riconoscimento, azione che, in linea di principio, può riguardare sia il riconoscimento paterno sia quello materno.
Il riconoscimento può essere impugnato per:
-difetto di veridicità,
-violenza,
-interdizione giudiziale.
Si discute riguardo all'impugnativa per incapacità naturale.
Il difetto di veridicità costituisce casa di impugnazione peculiare del riconoscimento: la disciplina è modificata dalla riforma del 2012 e le modifiche riguardano i termini di prescrizione ma non la legittimazione ad agire, che resta riservata all'autore del riconoscimento del figlio e a qualunque interessato. Per i termini di prescrizione, l'imprescrittibilità resta riservata al figlio; per l'autore del riconoscimento il termine è di 1
anno; sé l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre da quando ne ha avuto conoscenza. La madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa alla prova dell'ignoranza del presunto padre.
NB: in nessun caso l'azione può essere proposta decorsi 5 anni dall'annotazione del riconoscimento.
La riforma non affronta la questione dell'ammissibilità dell'azione di impugnativa nei casi in cui il genitore abbia riconosciuto il figlio come proprio, pur sapendo di non essere il padre (riconoscimento per compiacenza); le opinioni a riguardo sono discordi: l'opinione tradizionale sostiene che l'azione sia indipendente dallo stato soggettivo, di buona o mala fede dell'autore del riconoscimento; nel caso di riconoscimento per compiacenza successivamente impugnato dal suo autore si ritiene però che il figlio possa chiedere il risarcimento dei danni psicofisici conseguenti al falso riconoscimento. Secondo alcuni orientamenti di merito invece, occorre dare rilevanza alla mala fede del genitore cosicché l'impugnativa del riconoscimento per compiacenza da parte del suo autore non sarebbe ammissibile sulla base del principio di non contraddizione.
c)L'azione di contestazione: non ha lo scopo di contrastare la paternità del marito, ma
di mettere in discussione la maternità; nella nuova disciplina, l'azione è proponibile nei casi di supposizione del parto e sostituzione di neonato, ed anche quando chi è nato nel matrimonio è stato iscritto come figlio di ignoti; la contestazione è funzionale all'esercizio dell'azione di reclamo.
Legittimazione attiva spetta ai genitori e a chiunque interessato, mentre legittimati passivi sono entrambi i genitori. Sé l'azione non è promossa dal figlio, anche questo deve essere convenuto.




-Le azioni di reclamo


Le azioni dirette a costituire lo status di figlio sono due:
1.Reclamo di stato: in passato riservata ai figli legittimi nei casi di mancanza dell'atto di nascita o del possesso di stato, o quando esistendo l'atto di nascita, il figlio era stato iscritto come figlio di ignoti o come figlio di genitori diversi da quelli veri.
Ancora oggi è azione riservata ai figli matrimoniali: la nuova disciplina prevede il reclamo per ipotesi eterogenee:
-in caso di supposizione di parto o sostituzione di neonato;
-nel caso di chi è nato nel matrimonio ma è iscritto come figlio di ignoti;
-quando si tratta di reclamo di uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi è stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione e da chi fu iscritto in conformità ad altra presunzione di paternità;
-per reclamare diverso stato di figlio quando il precedente sia comunque stato rimosso. L'azione spetta esclusivamente al figlio ed è imprescrittibile. La legittimazione passiva è di entrambi i genitori che possono fornire la prova contraria con ogni mezzo.
L'azione di reclamo normalmente presuppone la mancanza di un titolo di stato, ma può essere esercitata anche quando si mira all'accertamento di uno stato diverso da quello che risulta dal titolo: in questo caso dovrà essere esercitata l'azione di contestazione dello stato risultante dall'atto di nascita.
2.Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità: è riservata ai figli non matrimoniali per accertare la paternità o la maternità nei casi in cui non sa stato fatto spontaneo riconoscimento da parte del genitore; è ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia consentito. Nel corso del procedimenti il giudice deve verificare lche l'azione corrisponda all'interesse del minore.
La prova della maternità o paternità può essere fornita con ogni mezzo: questa è una delle innovazioni di maggior rilievo della riforma del 1975; la sentenza accerta lo stato del figlio e produce gli stessi effetti del riconoscimento con decorrenza dalla data della nascita del figlio. Per il futuro il genitore è obbligato a provvedere al mantenimento del figlio minore; quanto al mantenimento pregresso (dalla nascita alla sentenza) sarà tenuto a rimborsare all'altro la quota di sua spettanza. Non sono rari i casi in cui il genitore sia condannato al risarcimento dei danni, sopratutto non patrimoniali, che il figlio ha subito in conseguenza del mancato riconoscimento da parte del padre, delle sofferenze, della perdita di identità che il rifiuto ha provocato.
La prova della paternità può essere fornita con ogni mezzo: la paternità è provata tutte le volte che risulta da una serie di indizi concordanti e univoci nell'attestarla; la legge non richiede più che tra i genitori vi sia stata convivenza more uxorio ed esclude che la semplice esistenza di rapporti tra la madre ed il padre presunto all'epoca del concepimento o la sola dichiarazione della madre, costituiscano prove della paternità. Ciò significa che tali circostanze sono rilevanti ma devono essere integrate da elementi ulteriori che costituiscano indizi gravi precisi e concordanti della paternità.
Provata l'esistenza di tali elementi il convenuto può eventualmente opporre eccezione che presuppone il riscontro di altri rapporti carnali con la madre e la precisa collocazione all'epoca del concepimento.
Un posto particolare tra le prove della paternità spetta a quelle ematologiche e biologiche: tali prove non possono essere effettuate senza il consenso dell'interessato,ma il giudice può
desumere elementi di giudizio dal rifiuto ingiustificato e dalla sistematica opposizione all'istanza di ammissione di tale prova.
La competenza ala pronuncia relativa alla dichiarazione giudiziale spetta al Tribunale ordinario, mentre sé si tratta di minorenni è competente il Tribunale dei minori.
Legittimato ad agire è solo il figlio e sé questi è minore l'azione può essere proposta nel suo interesse dal genitore o dal tutore; l'azione è proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, degli eredi.
Sé il figlio non ha compiuto i 16 anni, l'esercizio o la presunzione dell'azione non può avvenire senza il suo consenso.
L'azione è imprescrittibile nei confronti del figlio.





-I diritti dei figli non riconoscibili


Il diritto sancito dall'articolo 30 della Costituzione, al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione per il figlio, vale per tutti i figli anche sé non riconoscibili;il figlio può agire per ottenere il mantenimento, l'istruzione e l'educazione in ogni caso in cui è proponibile l'azione per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità.
Ai figli privi di status, raggiunta la maggiore età e l'indipendenza economica, sé in stato di bisogno, spetta il diritto agli alimenti nei confronti del genitore; al genitore però non spetta l'esercizio della responsabilità parentale nei confronti dei figli privi di status: mantiene però il dovere di istruzione, educazione e cura che implica rapporti di natura personale e patrimoniale con il figlio, ed entro certi limiti, rapporti con i terzi.
L'azione è proponibile da figlio in ogni caso in cui può essere presentata domanda giudiziale di riconoscimento della paternità e della maternità; in seguito alla riforma del 2012 anche i figli incestuosi generati da genitori in mala fede possono essere riconosciuti dal genitore previa autorizzazione del giudice.



-La responsabilità dei genitori


La relazione tra genitori e figli presenta lo stesso contenuto di diritti, doveri e responsabilità, indipendentemente dai modi in cui è costituita o formalizzata. Si tratta di rapporti finalizzati alla crescita fisica e spirituale del figlio, di natura personale o patrimoniale, rapporti che si proiettano verso l'esterno anche nei confronti di terzi.
La riforma del 2012 introduce il concetto di responsabilità genitoriale sottolineando che i poteri attribuiti dalla legge ai genitori sono finalizzati alla crescita personale del figlio, al suo benessere, e che sono ad essi attribuiti per il perseguimento del preminente interesse del figlio.
Il Titolo IX del Libro I del codice civile si intitola “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio” e si articola in due capi: il primo “dei diritti e doveri dei figli”, il secondo “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”; la riforma ha disciplinato dunque prima i diversi modi in cui lo status viene accertato e successivamente gli effetti di tale accertamento, effetti che sono eguali, quale che sia il modo in cui lo status è accertato. Il Capo I riguarda i diritti e doveri dei figli nel rapporto con i genitori, il Capo II riguarda gli effetti che la crisi del rapporto di coppia determina sulla relazione con i figli; si introduce una disciplina unitaria della responsabilità genitoriale, sia nella fase dello svolgimento della relazione, sia in quella di rottura della vita comune; l'attenzione si focalizza comunque sull'interesse del minore e vengono modificai nel contenuto i diritti e doveri dei figli.
L'articolo 315 bis cc stabilisce che il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto 12 anni o di età inferiore sé capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e procedure che lo riguardino. Il figlio deve rispettare i genitori e contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze ed al reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
I diritti del figlio sono inseriti in una disposizione di carattere generale che riguarda tutti i figli: anche il diritto alla famiglia ed all'intrattenimento delle relazioni parentali sono sanciti in via generale; si specifica il diritto all'assistenza morale esplicitando il dovere di cura della persona.
L'articolo 316 disciplina in modo unitario la responsabilità dei genitori unificando i precedenti articoli che si riferivano uno ai figli legittimi e l'altro a quelli naturali; la responsabilità genitoriale spetta ad entrami i genitori che la esercitano di comune accordo tenendo conto delle capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni dei figli. I genitori di comune accordo fissano la residenza abituale del minore: sia nel caso di genitori coniugati, che in quello di genitori non coniugati che abbiano entrambi riconosciuto il figlio.
In caso di contrasto, il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio maggiore di 12 anni o di età inferiore sé dotato di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità familiare.
Sé il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione al genitore che nel singolo caso ritiene più idoneo a curare l'interesse del figlio.
In caso di riconoscimento fatto da singolo genitore, la responsabilità genitoriale spetta esclusivamente a lui; il genitore che non la esercita, vigila sull'istruzione, educazione e sulle condizioni di vita del figlio.
L'articolo 316 cc però on fissa un termine finale per la responsabilità genitoriale: si ritiene comunque che il compimento dei 18 anni faccia cessare i poteri di indirizzo e decisione riservati ai genitori, salvo l'obbligo di mantenimento che dura fin quando i figli non raggiungono l'indipendenza economica.
Nel caso di lontananza, incapacità o impedimento di altra natura riguardo ad uno dei genitori, la responsabilità genitoriale viene esercitata in maniera esclusiva dall'altro; la separazione, il divorzio, l'annullamento del matrimonio determinano rimodulazione dei poteri dei genitori cui resta comunque attribuita la responsabilità genitoriale in modo congiunto.
Il nuovo articolo 317 bis riguarda i rapporti con gli ascendenti: si afferma il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni e si aggiunge che l'ascendente cui è impedito l'esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore.
All'ascendente è riconosciuto un vero e proprio diritto.





-Rapporti personali


Nel diritto italiano solo con l'approvazione della legge sull'adozione speciale del 1967 si verifica un primo grande cambiamento: per la prima volta il minore è considerato titolare di diritti preminenti su quelli degli adulti; con questa riforma inizia a formarsi una nuova cultura dei giudici minorili.
In quegli anni si afferma una nuova politica dei Tribunali per i minori che riscoprono ed utilizzano in maniera innovativa gli articolo 330 e 333 cc: il controllo sulla condotta dei genitori si sposta dalla patologia alla normalità del rapporto nella consapevolezza che anche una condotta normale può mettere a rischio la personalità del minore.
La riforma della famiglia imposta su nuove bai il rapporto tra genitori e figli: il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli non ha più un limite esterno ed oggettivo nel rispetto dei principi della morale, ma deve essere adempiuto tenendo conto delle capacità,
dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli; da un parametro oggettivo si passa ad uno soggettivo che si basa sul rispetto, sulla promozione della personalità del minore. Il rapporto tra genitori e figli si fa dialettico: scambio tra soggetti entrambi protagonisti del rapporto educativo.
Al minore sono riconosciuti ampi spazi di autonomia e indipendenza: gli viene riconosciuta la capacità di essere partecipe delle decisioni che lo riguardino.
I poteri dei genitori orientati alla cura della persona, all'educazione ed all'istruzione del figlio devono essere esercitati in maniera compatibile con i diritti dei figli, con il rispetto dei loro spazi di autonomia; questo non esclude i poteri di direzione ed indirizzo che legittimano nell'interesse del figlio anche decisioni ingrate.
Non trova più giustificazione il potere di correzione che può sfociare in una violenza fisica. Ai doveri dei genitori corrispondono doveri dei figli (315 bis); il codice enuncia il dovere al rispetto dei genitori , dovere morale alla base di qualsiasi convivenza. I figli devono coabitare con i genitori e non possono allontanarsi dalla casa familiare senza il loro consenso.
Anche sui figli gravano poi obblighi di natura patrimoniale: devono contribuire ai bisogno comuni finché dura la convivenza.



-Cognome del figlio


Nel nostro ordinamento si applica la regola secondo la quale i figli assumono il cognome del padre; anche i figli nati fuori del matrimonio portano il cognome del padre nel caso di riconoscimento congiunto, altrimenti assumono il cognome del genitore che per primo ha compiuto il ricoscimento.
Nel caso in cui il riconoscimento avvenga successivamente alla nascita è necessario conciliare due diverse esigenze: quella secondo cui il cognome indica l'appartenenza di una persona ad un gruppo familiare e quella secondo cui il cognome è segno distintivo della persona, elemento di riconoscimento nella trama dei rapporti personali, sociali ed economici.
Il mutamento del cognome ela conseguenza del mutare dlle vicende personali, può costituire per l'interessato una forma di lesione del diritto all'identità personale.
Per questo nel caso di riconoscimento paterno il figlio maggiorenne può decidere sé assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre; sé il figlio è minore decide il giudice nell'interesse esclusivo del figlio.
Nel caso in cui alla nascita sia assegnato un cognome scelto dall'ufficiale di stato civile, al
momento del riconoscimento è assegnato il cognome del genitore che lo effettua, ma non in via automatica: il figlio può decidere di conservare il cognome portato perché elemento distintivo della sua identità personale, aggiungendo, anteponendo o sostituendo ad esso quello del genitore che lo riconosce; nel caso del minore decide il giudice previo ascolto dello stesso.



-Responsabilità dei genitori ed intervento del giudice


La riforma del 75 ha ampliato la sfera di controllo del giudice sulle relazioni tra genitori e figli; nel sistema del codice civile l'intervento del giudice era giustificato: dall'esigenza di protezione del patrimonio del figlio, da quella della definizione dell'assetto conseguente alla crisi coniugale, di porre rimedio all'esercizio patologico della potestà.
La riforma aggiunge altri tipi di interventi intesi a comporre i contrasti che insorgono tra i genitori durante la convivenza; per evitare intervento troppo invasivo nella sfera privata, l'articolo 316 cc non attribuisce al giudice il potere di scegliere la soluzione migliore, ma quello di indicare il genitore più idoneo a prendere la decisione.
Gli articoli 330 e 333 cc riguardano il rapporto genitori e figli. Il giudice ha ampi poteri discrezionali nel disporre la decadenza della responsabilità genitoriale in caso di violazione o trascuratezza dei doveri verso il figlio, o di abuso di tali poteri, o nel prendere provvedimenti convenienti nell'interesse del figlio quando il genitore tenga condotta per lui pregiudizievole.
Nel caso di decadenza della responsabilità il genitore perde ogni potere nei confronti dei figli; la responsabilità è esercitata in via esclusiva dall'altro genitore o viene nominato un tutore. Nel caso di comportamenti pregiudizievoli l genitore resta investito della responsabilità anche sé dovrà seguire le disposizioni impartite dal giudice.
L'articolo 333 cc indica i rimedi per fronteggiare la situazione di pregiudizio, anche l'allontanamento del figlio dalla casa familiare; ulteriore rimedio è previsto dalla riforma dell'adozione: il giudice può disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore o convivente che maltratti o abusi il minore.
L'intervento del giudice può dipendere sia da condotta commissiva che omissiva: negligenze, trascuratezze, per le necessità materiali o spirituali del figlio che, anche quando non determino abbandono, siano per lui causa di pregiudizio. Non necessariamente la condotta del genitore deve essere colpevole ed intenzionale: il genitore animato da buone intenzioni può comunque sbagliare; l requisito del pregiudizio infatti va inteso in senso oggettivo e non soggettivo, considerando le conseguenze che può avere sulla formazione del
figlio, sulla sua personalità, e non la colpa dei genitori.
Il pregiudizio può derivare anche da decisioni che i genitori intendono prendere nell'interesse del figlio: decisioni che mettono in discussione il suo diritto alla vita privata, decisioni in campo sanitario, casi di conflitto di interessi.
L'intervento del giudice inteso a porre il figlio al riparo da condotte pregiudizievoli del genitore riguarda il figlio già nato.




-L'interesse del minore


I provvedimenti che il giudice deve prendere in caso di contrasto tra genitori, in sede di separazione e divorzio, in occasione dell'adozione del minore, o per fronteggiare una condotta pregiudizievole devono essere orientati al perseguimento del preminente interesse del figlio. Anche la clausola generale relativa all'interesse del minore attribuisce al giudice il potere di definire il precetto normativo in relazione alle circostanze del caso concreto facendo riferimento a quelle proprie del particolare contesto in cui il minore vive; queste valutazioni devono essere fatte alla luce dei principi fondamentali dell'ordinamento.
Con la Convenzione di NY si pone il principio generale secondo cui in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza di istituzioni pubbliche e private l'interesse del fanciullo deve avere considerazione preminente.
L'interesse del minore deve essere inteso in senso razionale, come elemento di una relazione del figlio con i genitori, orientata alle esigenze di crescita del minore.
Si afferma l'esigenza al rispetto dell'identità culturale del minore.





-Rapporti patrimoniali


1.OBBLIGO AL MANTENIMENTO: costituisce l'aspetto patrimoniale dei doveri di natura personale di istruire, educare e prendersi cura della persona del figlio; viene meno al compimento della maggiore età ma prosegue finché il processo educativo del figlio non si sia compiuto ed il figlio non abbia raggiunto la propria autonomia economica ovvero versi in condizione di colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo di studio o di svolgere idonea attività lavorativa.
I genitori sono tenuto a provvedere al mantenimento in proporzione delle sostanze e
capacità di lavoro professionale e casalingo, tenuto conto del tenore di vita della famiglia; il genitore che abbia provveduto al mantenimento dei figli, integralmente, ha diritto di agire “iure proprio” per il rimborso della quota da parte dell'altro coniuge. Qualora i genitori fossero privi di mezzi adeguati gli ascendenti devono fornirli loro, pur non sostituendosi nell'obbligo di mantenimento.
Nel caso di inadempimento il genitore può rivolgersi al giudice che può anche ordinare al terzo obbligato verso il genitore di versare direttamente all'altro una quota di quanto dovuto al genitore inadempiente.
2.AMMINISTRAZIONE E RAPPRESENTANZA: i genitori hanno poteri di amministrazione del patrimonio dei figli e di rappresentanza in tutti gli atti civili; agiscono disgiuntamente per gli atti di ordinaria amministrazione e congiuntamente per quelli di straordinaria. In ogni caso di disaccordo è possibile ricorrere al giudice ex articolo 316 cc.
Deve sussistere preventiva autorizzazione del giudice tutelare, concessa in casi di necessità ed utilità evidente per gli atti di straordinaria amministrazione e per quelli con cui i genitori vogliano alienare o dare in pegno beni pervenuti a qualsiasi titolo al figlio; accettare o rinunciar ad eredità o legati, accettare donazioni; procedere allo scioglimento di comunioni; per la continuazione dell'esercizio di impresa commerciale è richiesta autorizzazione del Tribunale.
Per una maggiore tutela degli interesse del minore è prevista la possibilità di nomina di un curatore speciale sia in caso di conflitto di interessi genitori e figli sia in caso in cui l'esercizio esclusivo della responsabilità spetti ad un genitore solo o quando spetti ad entrambe e non possano o non vogliano compiere uno o più atti nell'interesse del figlio.
N caso di cattiva amministrazione dei beni del figlio, il genitore può essere rimosso dall'amministrazione che verrà esercitata in via esclusiva dall'altro o da un curatore speciale sé la rimozione riguarda entrambi i genitori.
I genitori congiuntamente o quello che esercita la rappresentanza in via esclusiva, rappresentano i figli in tutti gli atti civili; la rappresentanza si giustifica pensando all'incapacità del figlio minore e alla necessità di trovare un sostituto per gli atti che personalmente non può compiere.
I poteri di rappresentanza dei genitori si esplicano per lo più in campo patrimoniale; la minore età non può essere considerata come contrapposizione tra capacità ed incapacità: il minore dispone di maggiori spazi di autonomia nell'ambito dei rapporti familiari, può compiere personalmente con il progredire dell'età e della maturità, gli atti inerenti allo svolgimento dei diritti personalissimi.
3.USUFRUTTO LEGALE: l'attuazione del principio di eguaglianza tra coniugi e
solidarietà nella famiglia si riflette sulla disciplina dell'usufrutto legale sui beni dei figli; in passato considerato come corrispettivo delle cure prestate dai genitori alla prole, oggi ha funzione di evitare differenze di tenore di vita dei componenti della famiglia. Titolari dell'usufrutto sono i genitori, o quello che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale, essi devono destinare i frutti dei beni dei figli al mantenimento della famiglia ed all'educazione ed istruzione dei figli.



-Responsabilità dei genitori e crisi della famiglia. Rinvio


Con la riforma del 2012/2013 si introduce un nuovo sistema relativo alla filiazione, improntato sul principio per cui il rapporto tra genitore e figlio è valore autonomo e non dipende dal matrimonio; la disciplina dei diritti e doveri dei figli non è più contenuto nell'ambito dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, e si estende anche ai figli naturali.
Si prevede poi disciplina unitaria degli effetti della crisi della vita comune nei confronti dei figli: è contenuta in un capo autonomo collocato nel titolo sulla responsabilità dei genitori; è disciplina unitaria quale che sia la causa che determina l'interrompersi della vita comune (separazione, divorzio, annullamento matrimonio, cessazione vita comune tra genitori non coniugati).



-La procreazione medicalmente assistita


Le coppie che per ragioni di sterilità o infertilità non riescono a concepire un figlio possono diventare ugualmente genitori come le coppie portatrici di malattie; la riproduzione medicalmente assistita pone rilevanti problemi di ordine etico e giuridico.
I principali problemi riguardano:
a)disciplina e controllo dei centri di riproduzione assistita, per garantire la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, primo fra tutti quello alla salute;
b)i soggetti che possono accedere alle tecniche;
c)le tecniche consentite;
d)lo status dei figli ed il diritto a conoscere le proprie origini.





-la legge 40/2004
Il legislatore italiano disciplina la materia con una normativa molto restrittiva che limita l'autonomia delle persone di determinarsi autonomamente su questioni che toccano la sfera privata e si dimostra poco attenta alla tutela della salute della donna, imponendo al medico linee di condotta scelte sulla base di principi astratti senza tenere conto delle condizioni ed esigenze di ciascuna paziente.
L'articolo 1 pone il principio secondo il quale al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi
derivanti dalla sterilità o dall'infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito; sembra porre tutta l'attenzione della tutela dell'embrione e dell'ovulo fecondato, sullo stesso piano delle persone già nate e della stessa madre.
I cardini della legge sono:
1.Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità; serve una diagnosi di sterilità o infertilità: rende le tecniche indisponibili per le coppie portatrici di malattie sessualmente trasmissibili;
2.L'accesso alle tecniche è consentito solo alle coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi;
3.Il consenso informato deve essere dato in forma scritta al medico da entrambi i componenti della coppia;
4.La volontà può essere revocata da ciascun componente solo fino al momento della fecondazione dell'ovulo;
5.Si vieta il ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo (donazione di sperma o di ovociti);
6.Si vieta la maternità per sostituzione;
7.Si vieta la circonservazione e la distruzione degli ovuli;
8.è vietata la clonazione;
9.Per la fecondazione extracorporea le tecniche di produzione degli embrioni non devono crearne un numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico impianto, e comunque non superiore a 3;
10.Si vieta la sperimentazione sugli embrioni e la produzione di embrioni a fini di ricerca; la ricerca clinica sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che s perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche collegate, volte alla tutela della salute ed all sviluppo dell'embrione stesso.


-La riscrittura giurisprudenziale e costituzionale della legge 40


La disciplina sopra esposta non è passata indenne al vaglio giurisprudenziale che cn alcune sentenze è intervenuta su alcuni punti critici: la legge è stata riscritta grazie al contributo dei giudici ordinari, della Corte costituzionale e della Corte Europea di Strasburgo.
I giudici di merito, disapplicate le linee guida illegittime del 2004, hanno dato interpretazione costituzionalmente orientata della legge così da rendere ammissibile, in presenza di stringenti condizioni, la diagnosi preimpianto a favore delle coppie portatrici di malattie genetiche.
A seguito delle pronunce della Corte Costituzionale è caduto il limite di embrioni che possono essere formati ed è caduto l'obbligo di procedere ad un unico e contemporaneo impianto; il medico, libero da vincoli di legge, può scegliere il percorso terapeutico più adatto a ciascuna paziente.
Cade poi il divieto di diagnosi preimpianto superi il margine di discrezionalità riservato agli Stati dall'articolo 8 CEDU; inoltre è dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa: sono stati disciplinati così i registri dei donatori ed è stato proposto l'inserimento della fecondazione eterologa nei livelli essenziali di assistenza, garantendo la copertura del SSN.



-Lo stato dei figli nati con l'apporto di un donatore o di una donatrice


Già la legge 40 prevedeva che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione assistita, il coniuge o il convivente il cui consenso si possa ricavare da atti concludenti, non può procedere all'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternità; il donatore di gameti non acquisisce relazione di parentela con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi.
Si intende fa acquisire al nato uno stato certo: il bambino è figlio del marito o partner che ha dato il consenso all'inseminazione della compagna e non si ammette il disconoscimento; è garanzia a tutela del nato che ha interesse prevalente rispetto a quello del genitore a far emergere quella realtà biologica che lo stesso per sua scelta ha messo in ombra.
La legge esclude che il donatore possa riconoscere il figlio o che questo possa esercitare l'azione di accertamento giudiziale nei suoi confronti.
Non si considera il problema dell'accertamento di maternità nel caso di donazione di
ovociti, o nel caso di nascita da madre surrogata o portante; il problema è ancora più complesso rispetto alla determinazione della paternità.
Nel caso di donazione di ovociti, la donna che partorisce ha legame biologico con il nato ed ha voluto quel figlio come proprio, il suo consenso vale come assunzione di responsabilità verso il nato.
Per quanto riguarda la maternità per sostituzione, il figlio partorito è geneticamente della donna cui verrà affidato alla nascita.








CAPITOLO 9: L'ADOZIONE


-Evoluzione dell'istituto


La disciplina attuale dell'adozione di discosta notevolmente dalle previsioni del 1942; nella configurazione originaria l'adozione aveva lo scopo di garantire una discendenza a persone prive di figli proprio, consentendo la continuità del patrimonio e del nome. Potevano essere adottate sia persone minori che maggiorenni, sempre per scopi puramente patrimoniali.
Nel 1967 la legge 341 istituisce l'adozione speciale; l'adozione tradizionale ordinaria non viene soppressa e resta presente nel codice ma viene limitata alle persone di maggiore età; a questa si affianca quella speciale che ha struttura e finalità diverse.
La nuova legge sposta l'attenzione dalla famiglia al bambino considerato come autentico soggetto di diritti: si dà attuazione all'articolo 30 II comma della Costituzione secondo cui in caso di incapacità dei genitori la legge provvede a che siano assolti i loro compiti; in presenza di stato di abbandono orale o materiale, il minore, può essere adottato da una famiglia idonea a prendersi cura di lui. I rapporti con la famiglia di origine si interrompono completamente ed il figlio è inserito come figlio legittimo nella famiglia adottante capace negli effetti a provvedere al suo mantenimento, alla sua istruzione ed educazione.
Con l'adozione speciale si dà attuazione al diritto del minore ad una famiglia capace di promuovere la crescita e lo sviluppo della personalità.
La tutela della famiglia cede di fronte ai preminenti diritti del bambino e prende il sopravvento una concezione di famiglia come formazione sociale tutelata fino a quando trova realizzazione di diritti fondamentali delle persone.
L'adozione tradizionale si perfeziona con il consenso dell'adottante e dell'adottato e, in caso questo sia minore, dei suoi genitori; il giudice, cui spetta pronunciare l'adozione, svolge mero controllo di legittimità.
All'adozione speciale si giunge con un procedimento giudiziale sottratto alla disponibilità dei privati ed in cui è il Tribunale dei minori ad accertare sia lo stato di abbandono che l'idoneità degli adottanti; il Tribunale svolge funzione di garanzie dei diritti del bambino e della famiglia di origine. Idea di fondo è quella che ad un provvedimento così grave, come quello che recide il rapporto tra genitori e figli, si può giungere solo in presenza di situazione irrimediabilmente compromessa e quando non esistano altre possibilità di recupero.
La legge 184/1983 ha adeguato l'adozione ai principi della Convenzione di Strasburgo del 1967: vengono distinte nettamente l'adozione tradizionale riservata ai maggiorenni e l'adozione dei minori; viene disciplinato l'affidamento familiare inteso come misura per aiutare la famiglia che si trovi in temporanea difficoltà, a provvedere ai propri figli; si disciplina l'adozione dei minori in casi particolari e l'adozione internazionale cui ci si riferisce nella legge 476/1998.
Con la riforma della filiazione del 2012 la nozione di abbandono si collega alla provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole; l'intento del legislatore è quello di favorire per quanto possibile il recupero della famiglia di origine, limitando l'adozione a casi davvero “disperati”.













-Il diritto del minore alla propria famiglia. L'affidamento familiare


La Convenzione di NY e la Carta di Nizza riconoscono al bambino il prioritario diritto alla famiglia; anche nella Costituzione gli interventi di sostegno alla famiglia, intesi ad agevolarla nello svolgimento dei suoi compiti, hanno la precedenza su quelli sostitutivi della famiglia idonea a svolgerli.
L'adozione può aiutare il bambino a superare il trauma dell'abbandono ma non può costituirne l'ultima ratio; il diritto del bambino alla famiglia risulta rafforzato perché si specifica che la condizione di indigenza della famiglia non deve costituire ostacolo all'esercizio di tale diritto. Vengono prefigurati strumenti di aiuto alla famiglia intesi a prevenire la situazione di abbandono; nello schema tracciato dalla legge il sostegno delle responsabilità familiari è il livello prioritario di intervento inteso ad evitare il distacco dai genitori.
L'affidamento familiare rappresenta una forma di assistenza alla famiglia che si trovi in temporanea difficoltà di provvedere ai suoi figli; mentre l'adozione presuppone uno stato definitivo di abbandono morale o materiale, l'affidamento intende supplire ad una carenza temporanea dell'ambiente familiare del minore: presupposto dell'affidamento è che il minore sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, quale che sia la causa di tale difficoltà. Si potrà dare luogo all'affidamento solo qualora gli interventi assistenziali a favore della famiglia non abbiano dato risultati.
L'affidamento è disposto a favore di una famiglia, o di persona singola in grado di assicurare il mantenimento, l'istruzione, l'educazione e le relazioni affettive di cui il bambino necessita; solo quando ciò non è possibile l'affidamento può essere fatto a favore di una comunità familiare.
Gli effetti dell'affidamento sono limitati: non modifica lo stato familiare del minore, i genitori restano titolari della responsabilità parentale,ma la gran parte dei poteri inerenti ad essa sono esercitati dagli affidatari che gestiranno i rapporti con le autorità scolastiche e sanitarie.
Nel provvedimento del giudice si indica la presumibile data dell'affidamento, massimo 24 mesi prorogabile solo sé la sospensione reca pregiudizio al minore, le modalità di esercizio dei poteri degli affidatari, i modi con cui i genitori e gli altri familiari possono mantenere i rapporti col minore;deve essere indicato il servizio sociale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza e vigilanza sull'affidamento, con l'obbligo di tenere costantemente informato il giudice sul suo svolgimento; è il servizio sociale che deve agevolare i rapporti tra il minore e la sua famiglia ed il superamento delle cause che hanno determinato il distacco.
Per favorire la pratica degli affidi si prevedono misure a sostegno delle famiglie affidatarie e si attribuisce al giudice la possibilità di disporre temporaneamente l'erogazione degli assegni familiari e delle prestazioni previdenziali relative al minore, a loro favore.
L'affidamento è disposto dal servizio sociale degli Enti locali con provvedimento reso esecutivo dal Giudice tutelare; presuppone il consenso dei genitori o del tutore, e l'audizione del minore che abbia compiuto 12 anni o che sia in possesso di discernimento; quando
manchi il consenso dei genitori o del tutore, il provvedimento è pronunciato dal Tribunale dei minori.
L'affidamento cessa quando viene meno la situazione che lo aveva determinato o sé diventa impossibile la prosecuzione, o quando emerga il carattere definitivo dello stato di abbandono.
Il rischio è quello che sé la condizione di incertezza si protrae, il minore rischia di esser sballottato da una famiglia all'altra prima di trovare sistemazione definitiva.
Quando nel corso dell'affidamento risulta l'irreversibilità dell'abbandono, e si prospetta l'esigenza di procedere all'adozione, si tende ad inserire tempestivamente il bambino in affidamento provvisorio presso una coppia idonea all'adozione nell'attesa che possa dar luogo all'affidamento preadottivo prima ed all'adozione poi; può anche accadere che per il bambino sia traumatico interrompere il rapporto con l'affidatario: sé questi non possiede i requisiti per adottare i giudici fanno talvolta ricorso all'adozione in casi particolari, intendendo in senso lato l'impossibilità di affidamento preadottivo.



-L'adozione dei minori


L'adozione costituisce il rimedio estremo cui fare ricorso quando la famiglia d'origine non riesce ad assicurare al minore il livello minimo di cure ed affetto necessario alla sua crescita sana ed equilibrata; in queste condizioni l'adozione tende a realizzar il fondamentale diritto del minore ad una famiglia che si prenda cura di lui.
Può essere adottato solo il minore che sia in stato di abbandono morale e materiale; non qualsiasi incertezza o abuso giustificano l'adozione: solo una grave carenza di affetti nelle cure essenziali alla crescita del bambino.
L'adozione determina l'acquisto dello stato di figlio legittimo degli adottanti dei quali l'adottato assume e trasmette il cognome, e l'instaurazione di rapporti di parentela tra l'adottato ed i parenti del genitore; con l'adozione cessano i rapporti con la famiglia d'origine. Gli effetti si producono dal momento in cui la sentenza assume carattere definitivo; la nuova situazione risulta dagli atti di stato civile che devono essere rilasciati con l'indicazione del nuovo cognome e con l'esclusione di ogni riferimento alla situazione precedente.
Sono i genitori che devono informare il figlio nei modi e tempi che ritengono opportuni; è vietato all'ufficiale di stato civile, o a qualsiasi Ente pubblico o privato, di fornire notizie o informazioni dalle quali possa risultare il rapporto di adozione.
La legge tutela il riserbo dell'adottato, degli adottanti e della famiglia d'origine escludendo
che vengano diffuse informazioni di carattere strettamente personale; fino alla riforma del 2001 nemmeno il minore poteva ottenere, tranne in casi eccezionali, informazioni sulla famiglia di origine; la legge più recente invece garantisce il suo diritto di sapere considerato come aspetto fondamentale della sua personalità.
Raggiunti i 25 anni l'adottato può chiedere al Tribunale dei minori di conoscere la sua origine e l'identità dei genitori biologici; l'accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che voglia conservare l'anonimato, anche sé si può interpellarla, su richiesta del figlio per un'eventuale volontà di revoca della dichiarazione di anonimato.



-La situazione di abbandono


L'adozione è pronunciata solo riguardo ai minorenni e la minore età deve sussistere nel momento in cui è pronunciata l'adozione; presupposto fondamentale è la dichiarazione del suo stato di adottabilità: sono dichiarati tali i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere temporaneo.
La nozione di abbandono è clausola generale che il giudice riempie di significato tenendo conto delle circostanze del caso concreto così da realizzare in ogni situazione l'interesse preminente del minore; l'adozione non ha intento sanzionatorio verso i genitori e le eventuali colpe sono irrilevanti; ciò che conta è la situazione oggettiva in cui il minore si trova, indipendentemente dalle cause che l'hanno provocata.
Il diritto del minore alla sua famiglia di origine può essere sacrificato solo in presenza di una situazione che denota carenze significative e non semplice inadempienza dei genitori.
Il giudice dovrà considerare l'interesse di ciascun minore tenendo conto della situazione concreta; i casi più difficili sono quelli in cui l'abbandono ha carattere relativo in cui sussiste ancora una relazione con i genitori; il giudice sarà chiamato a valutare il significato della relazione ancora esistente nell'esperienza esistenziale del bambino: nel farlo può avvalersi dell'opera del consulente tecnico e della presenza del Tribunale dei minori.
L'abbandono può sussistere anche sé il bambino si trova in affidamento familiare o presso un istituto o quando i genitori lo abbiano affidato a terzi, disinteressandosi di lui; può derivare non solo da condotta omissiva, dalla mancanza delle cure dovute, ma anche da una condotta commissiva: maltrattamenti, percosse, induzione a comportamenti illeciti o immorali.
L'abbandono è escluso da una causa di forza maggiore d carattere temporaneo; una causa di
forza maggiore definitiva invece può giustificare la condotta del genitore ma non impedisce che il minore subisca un danno irreparabile dalla mancanza di assistenza.
Quando la causa di forza maggiore ha carattere temporaneo ed è prevedibile che i genitori saranno in grado di recuperare il rapporto, l'adozione non può essere pronunciata e viene disposto l'affidamento familiare; la temporaneità della situazione va valutata dal punto di vista del bambino, dei suoi tempi di crescita e formazione.



-I requisiti degli adottanti


L'adozione è consentita per la coppia di coniugi, uniti in matrimonio da almeno 3 anni che sia giudicata idonea all'adozione; possono adottare anche le coppie che hanno già figli propri.
Non è consentita alle coppie di fatto perché s presume che solo il matrimonio dia le garanzie di stabilità dell'unione necessarie per garantire la serenità ad un bambino che ha subito il trauma dell'abbandono.
Si esclude l'adozione a favore di persona singola sé non in casi particolari.
Cauta apertura verso le coppie di fatto sia ha con la previsione secondo cui ai fini della valutazione della stabilità della oppia, può essere valutato un periodo di convivenza stabile e continuativo prima del matrimonio il matrimonio resta requisito indispensabile per la coppia adottante.
La legge richiede la diversità di età tra adottante ed adottato analoga a quella che sussiste tra genitori e figli: l'età dell'adottante deve superare di almeno 18 anni e non più di 45 l'età dell'adottato; il requisito dell'età non è rigido perché nell'interesse del minore il giudice può ammettere all'adozione anche coppie che hanno superato tale età quando accerti che dalla mancata adozione possa derivargli pregiudizio: in questo caso l'adozione può essere concessa sé uno dei due coniugi supera di non più di 10 anni l'età prescritta, o i coniugi abbiano figli propri in età minore, o si tratti dell'adozione di fratelli o sorelle del figlio adottivo.
I coniugi devono essere idonei ad educare, istruire e mantenere i minori che vogliono adottare; l'idoneità educativa deve essere generale sia relativa alle specifiche caratteristiche ed esigenze dell'adottando.
L'idoneità all'adozione è accertata con colloqui con esperti e con il servizio sociale.
-Il procedimento


L'adozione del minore è momento finale di un procedimento che si articola in più fasi:
-dichiarazione dello stato di adottabilità
-affidamento preadottivo
-provvedimento di adozione.
La legge 149/2001 ha modificato la disciplina del procedimento per ridurne i tempi, rendere possibile la piena partecipazione degli interessati al procedimento, realizzare il loro diritto alla difesa, attuare la terzietà del giudice rispetto alle parti ed al PM, garantendo al meglio il principio del contraddittorio.
Il nuovo articolo 8 comma IV prescrive che il procedimento debba svolgersi fin da principio con l'assistenza legale del minore, dei genitori ed altri parenti che abbiano rapporti significativi col minore.
L'intero procedimento prende avvio con la segnalazione dello stato di abbandono che va indirizzata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale de minori del luogo in cui il minore si trova; la sua funzione è quella di portare a conoscenza del giudice la situazione di abbandono. Chiunque può informare il PM presso il Tribunale dei minori; esiste un obbligo specifico per tutti coloro che parenti entro il quarto grado ospitino per più di sei mesi un minore, anche i genitori sono obbligati alla stessa segnalazione, ed in caso di omissione, possono decadere dalla responsabilità genitoriale.
Ricevuta la segnalazione il PM propone ricorso di adozione al Tribunale dei minori per i minori che ad esito delle informazioni raccolte, risultano in stato di abbandono; la procedura segue regole diverse a seconda che si tratti o meno di minore privo di genitori e parenti entro il quarto grado: nel primo caso si applicano procedure più celeri e snelle che consentono di pronunciare l'adozione in tempi brevi. Sé vi sono genitori o parenti, si svolge la procedura in contraddittorio con questi per tutelare i loro diritti e quelli del bambino ad esser cresciuto nella propria famiglia.
Quando le indagini effettuate provano che il minore è orfano, o non riconosciuto dai genitori, e non vi sono parenti entro il quarto grado che abbiano con lui rapporti significativi, lo stato di abbandono è evidente ed il Tribunale per i minori provvede a dichiarare lo stato di adottabilità.
La dichiarazione può essere soppressa sé il genitore naturale chiede un termine per effettuare il riconoscimento o sé si tratta di minore di anni 16.
Il Tribunale può dare ai genitori le prescrizioni idonee ad evitare lo stato di abbandono nel tentativo di recuperare il rapporto con la famiglia di origine; può anche sospendere il procedimento per un anno sé la sospensione è utile all'interesse del minore.
Durante lo stato di adottabilità la responsabilità dei genitori è sospesa e viene nominato un tutore sé non si era già provveduto in precedenza; lo stato di adottabilitàpuò essere eccezionalmente revocato solo prima che sia intervenuto l'affidamento preadottivo e solo per circostanze sopravvenute: sé lo stato di abbandono viene meno perché i genitori dimostrano di avere intenzione di occuparsi del figlio e di essere nelle condizioni per farlo. Dichiarato lo stato di adottabilità si apre la fase dell'affidamento preadottivo che ha lo scopo di sperimentare l'inserimento del minore nella nuova famiglia; l'affidamento deve essere disposto a favore di una delle coppie che ha fatto domanda di adozione ed è stata dichiarata idonea dal Tribunale e che appare adatta allo specifico bambino.
In questa fase è importante ascoltare l'adottando in relazione al so discernimento ed a prescindere dalla sua età; il minore che abbia compiuto 14 anni deve dare il suo consenso.
L'affidamento preadottivo dura 1 anno ed eccezionalmente può essere prorogato per un altro anno: ha la funzione di verificare il buon inserimento del minore nella nuova famiglia e può essere revocato in caso di insuccesso.
Al termine dell'affidamento preadottivo il Tribunale dei minorenni pronuncia con sentenza in camera di consiglio l'adozione, sentiti tutti i soggetti interessati, in particolare i coniugi, l'adottando, gli eventuali figli della coppia sé maggiori di 14 anni.
Sé durante l'affidamento uno dei due coniugi muore o diventa incapace, l'adozione può comunque essere disposta nei confronti di entrambi; può essere disposta a favore di entrambi o di uno solo nell'esclusivo interesse dl minore qualora occorra separazione personale.
Contro la sentenza è ammesso ricorso alla sezione minori della Corte d'appelli ed eventualmente ricorso in Cassazione; la sentenza, definitiva, deve essere annotata ai margini dell'atto di nascita: per effetto della stessa l'adottando diventa figlio legittimo degli adottanti interrompendo ogni rapporto con la famiglia di origine.




-L'adozione dei minori in casi particolari


Siccome l'adozione interrompe ogni rapporto con la famiglia d'origine si sono previste garanzie per la verifica del competo abbandono del bambino da parte dei suoi genitori e della sua famiglia; sono posti poi requisiti precisi per chi aspira all'adozione così da dare al minore abbandonato una famiglia in grado di offrire le migliori garanzie di riuscita dell'adozione.
Restano fuori dal campo di adozione alcune situazioni di confine con il rischio che il
bambino non trovi sostituiti adeguati; l'adozione in casi particolari disciplinata dagli articoli 44-57 della legge 183/1983 modificati dalla legge 149/2001 è consentita:
a)quando il minore sia orfano di padre e madre e l'adottante sia parente entro il sesto grado o sia legato al minore da rapporto stabile e duraturo preesistente alla morte dei genitori;
b)quando l'adottante è coniuge del genitore anche adottivo del minore;
c)quando si tratta di minore orfano affetto da handicap;
d)quando vi sia constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
Nei primi due casi il minore non si trova in stato di abbandono ma si vuole dare stabilità e certezza a rapporti effettivi già esistenti.
L'adozione da parte del coniuge del genitore può essere disposta sia in caso di morte sia in caso di divorzio o annullamento del matrimonio, cui siano seguite nuove nozze, sia nel caso di figlio dell'altro coniuge nato fuori del matrimonio. L'adozione dà veste giuridica ad un rapporto già esistente; in Italia continua a mancare una disciplina per le famiglie ricomposte: l'adozione in casi particolari è l'unico modo per dare veste giuridica a rapporti genitoriali di fatto. Con l'adozione il coniuge assume obblighi precisi nei confronti del bambino, ma non si spezza il rapporto con l'altro genitore.
L'adozione in casi particolari è disposta solo a favore del coniuge e non del partner non sposato.
Nel caso di impossibilità di affidamento preadottivo si pensa a bambini difficili, dichiarati in stato di adottabilità e abbandonati che però non riescono a trovare una famiglia idonea; per questi soggetti può convenire l'adozione da parte di persona non sposata o coppia che non possieda alcuni dei requisiti.
L'adozione in caso particolare vuole attuare l'interesse del bambino ad essere accolto in una famiglia in ipotesi tipiche e circoscritte, utilizzando a tale scopo uno strumento giuridico dotato di effetti più limitati.
L'adozione in casi particolari si caratterizza per un minor rigore nei requisiti degli adottanti: è permessa ai coniugi ma anche a chi non è coniugato; sé l'adottante è persona coniugata non separata, l'adozione può essere disposta solo a favore di entrambi i coniugi. La presenza di figli legittimi non è mai d'ostacolo all'adozione; si può procedere a più adozioni anche con atti successivi.
Anche i requisiti d'età sono meno rigidi; diversi sono gli effetti: non interrompe i rapporti con la famiglia d'origine perché l'adottante si aggiunge ai genitori senza sostituirli.
Il figlio adottivo ha diritti sulla successione dell'adottante ma l'adottante non acquista alcun diritto; l'adottato ha posizione simile a quella del figlio biologico ma non eguale: non ha rapporti con i parenti dell'adottante.
Siccome l'adozione in casi particolari riguarda comunque minori, si ha disciplina apposita relativa alla responsabilità dei genitori: l'adottante assume la responsabilità parentale, ah obbligo di provvedere al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione dell'adottato; sé il minore ha beni, l'adottante ne amministra il patrimonio con l'obbligo di fare l'inventario.
Il procedimento di adozione è più snello: è competente il Tribunale dei minori del distretto in cui il minore si trova, che deve verificare l'esistenza dei requisiti prescritti e valutare la corrispondenza dell'adozione all'interesse del minore; le indagini predisposte devono riguardare: idoneità affettiva e capacità di educare ed istruire il minore, la situazione economica, la salute e l'ambiente familiare degli adottanti; i motivi per i quali l'adottante desidera provvedere all'adozione; la personalità del minore; la possibilità di idonea convivenza, tenendo conto della personalità dell'adottante e del minore.
L'adozione particolare ha alla base il consenso dell'adottante e dell'adottato;il consenso è prestato personalmente dall'adottando sé ha compiuto 14 anni o altrimenti dal suo rappresentante legale. Deve comunque essere sentito l'adottando che ha compiuto 12 anni o di età inferiore sé possiede capacità di discernimento.
Occorre l'assenso dei genitori e del coniuge dell'adottando; il Tribunale può ovviare alla mancanza del consenso e pronunciare ugualmente l'adozione quando lo ritenga rifiuto ingiustificato e contrario all'interesse dell'adottando; non può farlo ove manchi il consenso del genitore che esercita la responsabilità parentale.
Il Tribunale dei minori pronuncia la sentenza di adozione in camera di consiglio sentito il PM; contro la sentenza si ammette solo ricorso in appello.
Gli effetti dell'adozione si producono immediatamente dalla data della sentenza; fino a tale momento i consensi e gli assensi possono essere revocati.
Sé uno dei coniugi muore dopo aver dato il consenso e prima della sentenza, si può procedere, su istanza dell'altro, al compimento degli atti necessari all'adozione;sé l'adozione è ammessa, produce effetto dalla data della morte dell'adottante.
Per l'adozione in casi particolari non è previsto affidamento preadottivo; è prevista però la possibilità di revoca dell'adozione nei casi in cui l'adottato, maggiore di 14 anni abbia attentato alla vita dell'adottante, del suo coniuge, dei suoi ascendenti o discendenti, o si sia reso colpevole nei loro confronti di un delitto punibile con pena non inferiore al minimo di  3 anni; quando gli stessi fatti siano compiuti dall'adottante nei confronti dell'adottato, del suo coniuge, ascendenti o discendenti; sé gli adottanti hanno violato gli obblighi cui sono tenuti.
Nel caso in cui l'adozione sia revocata, il Tribunale dà provvedimento opportuni per la cura del minore, per la rappresentanza, l'amministrazione dei beni, segnalandoli al Giudice tutelare per la nomina di un tutore.
L'adozione in casi particolari ha costituito una sorta di valvola di sicurezza in cui il ricorso all'adozione piena non è opportuno o possibile.




-L'adozione internazionale


Si intende ogni forma di adozione in cui gli adottanti abbiano nazionalità diversa da quella di colui che si intende adottare; il caos più frequente è quello dell'adozione di un minore straniero effettuata in un Paese diverso da quello in cui risiedono gli adottanti.
a)Adozione di un minore straniero e la Convenzione de l'Aja: l'adozione di minore straniero ha acquisito importanza sociale e pone questioni delicate di fronte alle quali gli strumenti di diritto privato internazionale si dimostrano inadeguati. La disciplina specifica per l'adozione internazionale è introdotta dalla legge 183/1983 muovendo dal presupposto che al minore straniero dovessero essere offerte le stesse garanzie riconosciute a quello italiano.
La legge 476/1998 modifica la legge preesistente accogliendo i principi sanciti con la Convenzione sulla protezione dei minori e a cooperazione in materia di adozione internazionale, aperta e firmata a l'Aja nel 19993. I principi della Convenzione sono richiamati all'articolo 29: l'adozione internazionale è ultima ratio in assenza di alternative valide nel Paese d'origine; deve essere effettuata nell'interesse del minore e nel rispetto dei suoi diritti fondamentali; deve realizzarsi un sistema di cooperazione tra gli Stati per assicurare il rispetto di tali principi e prevenire la sottrazione, vendita o tratta dei bambini; deve essere assicurato il riconoscimento in tutti i Paese aderenti delle adozioni realizzate in conformità con la Convezione.
Spetta al Paese d'origine decidere sull'adottabilità del bambino, spetta al Paese di accoglienza decidere sull'idoneità degli adottanti sulla base degli stessi requisiti richiesti per l'adozione interna.
Per raggiungere gli obiettivi fissati dalla Convenzione, gli stati devono istituire Autorità centrali (IT: Commissione per le adozioni internazionali9 che costituiscono l'asse portante del meccanismo previsto; tutte le adozioni internazionali devono avvenire per il loro tramite e attraverso gli enti autorizzati: si esclude il tramite di enti privati.
La Commissione è istituita presso la Presidenza dl consiglio ed è composta da 11 membri e presieduta da un magistrato esperto nel settore minorile. A numerosi compiti: rilascia l'autorizzazione agli enti, autorizza l'ingresso del minore in Italia, certifica la conformità dell'adozione alla Convezione, conserva gli atti relativi alle procedure, promuove la
formazione degli operatori nel campo delle adozioni e collabora con le Autorità centrali degli altri Stati.
L'iter che porta all'adozione si articola in più fasi:
1)la prima fase è di competenza del giudice italiano ed inizia con la dichiarazione della disponibilità di adottare presentata dagli aspiranti adottanti al Tribunale per i minorenni, e termina con la dichiarazione di idoneità all'adozione che il Tribunale rilascia, accertati i requisiti. La valutazione deve essere fatta con particolare rigore con riferimento specifico all'attitudine di farsi carico dell'adozione internazionale.
Il decreto di idoneità è trasmesso alla Commissione per le adozioni internazionali ed all'Ente autorizzato che ha ricevuto dai coniugi l'incarico di seguire la pratica all'estero;
2)la seconda fase compete alle autorità straniere e prevede l'incontro del bambino con gli adottanti, per concludersi con l'ingresso del minore in Italia. La mediazione tra l'autorità straniera ed i coniugi è fondamentale ed è svolto dall'Ente autorizzato.
L'ingresso del minore in Italia è autorizzato dalla Commissione per le adozioni internazionali previa dichiarazione che l'adozione risponde agli interessi del bambino; questo è possibile solo quando corrisponde nei tratti fondamentali all'adozione italiana.
3)la terza fase si svolge dinnanzi al Tribunale dei minori del luogo di residenza degli adottanti cui spetta la funzione di controllo per la verifica della regolarità della procedura, il rispetto delle condizioni prescritte dalla Convenzione ed il fatto che l'adozione non sia contraria ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori, valutati in relazione all'interesse del minore.
Sé le condizioni sono soddisfatte il Tribunale ordina la trascrizione del provvedimento straniero nei registri di stato civile, a seguito della quale l'adozione produce gli stessi effetti di quella interna. Nel caso in cui l'adozione si debba perfezionare dopo l'arrivo del minore in Italia, il Tribunale per i minori riconosce il provvedimento straniero come affidamento preadottivo e l'adozione giungerà al termine dello svolgimento positivo di tale periodo di prova e previo consenso del minore che abbia 14 anni.
b)Adozione di minori provenienti da Stati non aderenti alla Convenzione de l'Aja: occorre che sia accertata la condizione di abbandono del minore straniero o il consenso dei genitori naturali ad un'adozione che determini per l'adottato l'acquisto dello stato di figlio naturale degli adottanti e la cessazione dei rapporti giuridici con la famiglia di origine; l'adottante deve aver ottenuto la dichiarazione di idoneità all'adozione e le procedure adottive devono essere effettuale con l'intervento della Commissione per le adozioni internazionali e l'intervento di un ente autorizzato; siano rispettate le indicazioni contenute nel decreto di idoneità; sia stata concessa autorizzazione all'ingresso e al soggiorno del minore straniero in Italia.
c)L'adozione di minore straniero abbandonato in Italia: si applicano le disposizioni in materia di affidamento, adozione e provvedimenti necessari in caso di urgenza; la norma si riferisce non solo ai minori stranieri che si trovino in condizione di abbandono, ma anche a quelli che sono entrati nel nostro Paese a scopo di adozione per i quali abbia avuto esito negativo l'affidamento preadottivo, o per i quali non sia dichiarata efficace e trascrivibile l'adozione pronunciata all'estero.
d)L'adozione di un minore italiano da adottanti stranieri: ultimo caso marginale di adozione internazionale; la domanda di adozione deve essere presentata al console italiano competente per il territorio che la inoltra al Tribunale del luogo dove si trova il minore, nel quale ha l'ultimo domicilio o in mancanza al Tribunale dei minori di Roma che,svolti i necessari accertamenti, dispone l'affidamento preadottivo, autorizzando l'espatrio del minore.
Al console sono attribuiti poteri di vigilanza e controllo sull'affidamento preadottivo.







-L'adozione dei maggiorenni


La legge 183/1983 ha tenuto ben distinte le fattispecie di adozione del minore e del maggiorenne: l'adozione piena o legittimante viene ammessa a favore di ogni minore, mentre l'adozione tradizionale viene riservata ai maggiorenni.
All'adozione dei maggiorenni si rivolge in via esclusiva il Titolo VIII del codice civile; fra adottante ed adottando deve esserci una differenza d'età di almeno 18 anni.
Per l'adozione occorre il consenso dell'adottante e dell'adottato che può essere revocato sino alla pronuncia del Tribunale, è necessario l'assenso dei genitori dell'adottando  sé congiunti e non legalmente separati.
Sé sono negati tali assensi, il Tribunale, sentiti gli interessati e su istanza dell'adottante, può pronunciare comunque l'adozione quando ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, salvo che il rifiuto provenga dal coniuge convivente.
Il consenso dell'adottante e dell'adottato deve essere prestato personalmente al Presidente del Tribunale.
Il Tribunale verifica l'esistenza di tutte le condizioni di legge e la corrispondenza dell'adozione all'interesse dell'adottando; ove il controllo dia esito positivo, il Tribunale in camera di consiglio, sentito il PM provvede con sentenza, decidendo di dar luogo o meno
all'adozione. Contro la sentenza si ammette il ricorso in appello.
Gli effetti decorrono dalla data della sentenza. Con l'adozione l'adottato diventa figlio adottivo dell'adottante; lo stato di figlio adottivo non sostituisce quello del figlio acquisito per nascita ma si aggiunge ad esso; l'adozione del maggiorenne non interrompe i rapporti con la famiglia d'origine: l'adozione non modifica i dritti successori e alimentari tra genitori e figli.
L'adozione del maggiorenne non genera rapporti di parentela tra adottato e famiglia dell'adottante.
L'adozione è revocabile solo in casi eccezionali, espressamente previsti alla legge, quando si verifichino circostanze tali da turbare in maniera rilevante il rapporto adottivo.
La presenza di figli nella famiglia dell'adottante, non impedisce l'adozione del maggiorenne, i figli, sé minori devono tuttavia essere ascoltati.


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