Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono - Sonetto di apertura del Canzoniere di Francesco Petrarca

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Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono

È l'incipit del sonetto di apertura del Canzoniere di Francesco Petrarca. Fu scritto relativamente tardi (probabilmente nel 1350) e adesso è affidata la funzione introduttiva in quanto illustra la materia contenuta nell'opera. Essa viene però presentata in modo fortemente autocritico dall'autore, poiché la passione amorosa, tema centrale dell'opera, risulta superata e addirittura rinnegata. Dunque, questo sonetto che fa da proemio coincide di fatto con la conclusione ideologica dell'opera, poiché il poeta ha recuperato la moralità persa a causa della passione amorosa.

Il poeta colloca questo sonetto in apertura al libro per spiegare che il soggetto poetico, che nel corso dell'opera appare completamente distratto dall'errore (la passione amorosa), ha superato l'esperienza amorosa nella prospettiva cristiana, attraverso il pentimento e la consapevolezza che i beni e le vicende terrene sono brevi e illusorie.

Il Canzoniere viene qui presentato come il risultato dell'illusione amorosa, alla quale il poeta si è infine sottratto e rispetto a cui si è trasformato. Il poeta fa riferimento anche ai suoi lettori, che immagina essere sia competenti in materia amorosa (come richiedevano anche i poeti stilnovisti) sia pronti a provare pietà e a concedere il perdono.

Il sonetto presenta uno schema di rime incrociate nelle quartine (ABBA, ABBA) e ripetute nelle terzine (CDE, CDE).

Con Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, Petrarca si rivolge ai propri lettori (il «Voi» del v. 1) per spiegare che stanno per leggere una raccolta di «rime sparse», cioè non riunite in maniera organica, relative alla sua vita.

Le prime due quartine fanno riferimento all'età giovanile, quella dell'errore (l'illusione amorosa), mentre le terzine alla fase in cui egli ha maturato la consapevolezza del suo errore, di cui prova vergogna e pentimento. Il v. 9, con il «ma» avversativo, segna la frattura tra questi due periodi, in parte già spiegata dal v. 4, in cui si spiega che in un certo periodo della sua vita «era in parte altr'uom da quel ch'i' sono».

Questa divisione rispecchia anche quella interna all'intero libro, tra le rime in vita di Laura (caratterizzate dal racconto della passione nei suoi confronti) e quelle in morte di Laura (caratterizzate appunto dalla presa di coscienza del proprio errore giovanile).

Nel v. 7 Petrarca esplicita chi sono i precisi destinatari dell'opera, cioè tutti coloro che sono capaci di comprendere la sua esperienza amorosa (perché anche loro l'hanno sperimentata) e di provare pietà e perdono.

All'illusione descritta nelle quartine corrisponde la disillusione illustrata nelle terzine, così come alla pietà e al perdono richiesti ai lettori corrispondono la vergogna e il pentimento del poeta.

Ai vv. 1-2 sono presenti la figura retorica dell'enjambement e dell'allitterazione (suono – sospiri), che ha effetto onomatopeico.

Al v. 3 il termine «errore» acquisisce un significato simbolico: allude al traviamento dovuto all'amore per Laura, incontrata il 6 aprile 1327 nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, ma Petrarca utilizzerà spesso questa parola nel Canzoniere giocando sulla sua ambiguità di significato: essa deriva infatti dal verbo latino “errare”, che significa sia “vagare” che “sbagliare”.

Al v. 10 si ha allitterazione della «f» (favola – fui), al v. 11 della «m» (di me – medesmo – meco – mi – vergogno) mentre al v. 12 della «v» (vaneggiar – vergogna).

O voi che ascoltate in queste poesie sparse il suono di quei sospiri [d'amore] di cui io nutrivo il mio cuore durante il mio vaneggiare giovanile, quando ero in parte un uomo diverso da quello che sono oggi,
se fra voi c'è chi comprende l'amore per esperienza, spero di trovare pietà e perdono per lo stile vario in cui piango e parlo, fra le speranze e il dolore vano.
Ma ora capisco bene come per molto tempo io fui oggetto di derisione per tutto il popolo, cosa di cui spesso mi vergogno con me stesso;
e il frutto del mio vaneggiare [del mio amore infelice] è la vergogna, e il capire chiaramente che tutto ciò che piace al mondo è un sogno fugace.

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